E Jurgens? Non proveniva da una subcultura, ma da un mondo che era stato abbandonato per le stelle, dove i reietti erano scivolati in una cieca barbarie. La libertà, aveva detto Jurgens… aveva finalmente acquisito la libertà dalla responsabilità implicita che lui e gli altri robot avevano sentito nei confronti dei meschini avanzi dell’umanità. Libertà? Lansing aveva i suoi dubbi. Si chiedeva se Jurgens, ancora adesso, si rendeva conto di non aver mai riguadagnato la libertà. Faceva ancora da pastore ai suoi umani, come lo stava facendo in quel momento, avventurandosi per primo nel deserto verso un Caos che lui e tutti gli altri non potevano affermare di comprendere. Da quando erano giunti in quel mondo improbabile, era sempre stato lì, sempre pronto a servire, sempre memore delle esigenze e delle speranze di altri… i suoi umani.
Tuttavia, per qualche ragione inspiegata, non aveva riposto tutta la sua fiducia in questi suoi umani. Aveva raccontato a Lansing solo una minima parte della sua storia… com’era il suo mondo, il suo hobby di costruire marionette umanoidi ispirate alle antiche favole dell’umanità. (Marionette, si chiese Lansing, come Melissa?) A tutti gli altri non aveva detto nulla; era rimasto ostinatamente muto persino quando Mary l’aveva interrogato.
E questo era sconcertante, si disse Lansing. Perché il robot s’era confidato con uno di loro e non con gli altri? Esisteva tra loro due un legame che Jurgens riusciva a scorgere, e l’umano no?
Un po’ più avanti, Jurgens s’era fermato ai piedi d’una piccola duna. Quando Lansing lo raggiunse, gli indicò un oggetto che sporgeva dalla sabbia. Era una sfera di vetro pesante o di plastica trasparente, simile al casco d’una tuta spaziale; e all’interno, rivolto verso di loro, c’era un teschio umano. La fila ghignante di denti sembrava sorridere; e uno di quei denti, notò Lansing, era d’oro, e luccicava al sole. Dalla duna affiorava un pezzo arrotondato di metallo e poco più oltre, sulla destra, un altro oggetto metallico.
Jurgens estrasse una pala dal suo zaino e incominciò a rimuovere la sabbia. In silenzio, Lansing rimase a guardare.
— Fra un minuto vedremo — disse Jurgens.
E pochi minuti dopo videro.
L’oggetto metallico aveva una forma vagamente umana. C’erano tre gambe, non due, e due braccia e un torso. Misurava tre metri o forse più, e nella parte superiore c’era uno spazio dove un tempo aveva viaggiato un uomo che adesso era ridotto a uno scheletro. Le ossa erano sparse, disarticolate, nello spazio che l’uomo aveva occupato. Il cranio era rimasto imprigionato nel casco.
Jurgens, accosciato a terra, alzò la testa verso Lansing.
— Ha indovinato? — chiese. Lansing rabbrividì. — No, dimmi tu.
— D’accordo — disse il robot. — Una macchina camminante.
— Una macchina camminante?
— Potrebbe essere. È la prima cosa che mi è venuta in mente.
— Ma cos’è una macchina camminante?
— Qualcosa di molto simile a questa venne costruito dagli umani del mio pianeta. Prima che andassero alle stelle. Da usare su altri pianeti. In un ambiente ostile, immagino. Immagino, ho detto. Non ne ho mai vista una. Ne avevo soltanto sentito parlare.
— Una macchina per muoversi in un ambiente ostile?
— Appunto. Collegata al sistema nervoso, con circuiti complessi capaci di reagire come reagirebbe un corpo umano. L’umano vuole camminare, e la macchina cammina. Anche le braccia funzionano nello stesso modo.
— Jurgens, se è vero, forse quello che abbiamo davanti era uno degli abitanti di questo pianeta. Nessun altro umano sarebbe stato trasportato qui, come siamo stati trasportati noi, racchiuso in un congegno simile. Noi siamo arrivati con i panni che avevamo adosso, certo, ma…
— Ma non può escluderlo — disse Jurgens.
— Forse — disse Lansing. — Ma quest’uomo, se veniva da qualche altro luogo, doveva provenire da un mondo alternativo che era divenuto ostile agli esseri umani. Così inquinato, così pericoloso…
— Un mondo in guerra — disse Jurgens. — Pieno di raggi e gas letali.
— Sì, credo che sia possibile. Ma appena fosse giunto in questo mondo, non avrebbe più avuto bisogno del congegno. Qui l’aria non è inquinata.
— Deve rendersi conto — disse Jurgens, — che forse era impossibile separarsi dalla macchina. Forse vi era legato biologicamente, al punto da non potersi staccare. Con ogni probabilità non gli dispiaceva troppo. Doveva essere abituato. E una macchina del genere avrebbe offerto certi vantaggi. Li avrebbe offerti senza dubbio, in un posto come questo.
— Sì — disse Lansing. — Sì, è vero.
— E qui si è trovato nei guai — disse Jurgens. — Qui, in tutta la sua arroganza, ha trovato la fine.
Lansing scrutò il robot. — Tu pensi che tutti gli uomini siano arroganti. È la caratteristica distintiva della razza umana.
— Non tutti gli umani — disse Jurgens. — Può capirmi, se provo un certo risentimento. Essere abbandonati…
— E ti ha roso per tutti questi anni?
— Non mi ha roso — disse Jurgens.
Tacquero per lunghi istanti, poi il robot disse: — Lei no. Lei non è arrogante. Non lo è mai stato. Il reverendo lo era, e anche il generale. E Sandra, in quel suo modo gentile…
— Sì, lo so — disse Lansing. — Spero che potrai perdonarli.
— Lei e Mary — disse Jurgens. — Darei la vita per lei e Mary.
— Eppure non hai voluto parlare di te a Mary. Hai rifiutato di confidarti.
— Mi avrebbe commiserato — disse Jurgens. — Non avrei sopportato la sua pietà. Lei non mi ha mai commiserato.
— No, non l’ho mai fatto — disse Lansing.
— Edward, lasciamo stare l’arroganza. Noi due dovremo proseguire il cammino.
— Precedemi, io ti seguo — disse Lansing. — Non abbiamo tempo da perdere. Non mi va di lasciare sola Mary. Persino adesso, mi è difficile resistere all’impulso di tornare indietro.
— Ancora tre giorni e saremo di ritorno. La troveremo sana e salva. Non impiegheremo più di quattro giorni.
Non trovarono legna, lungo il percorso. Il terreno era completamente spoglio. Quella notte si accamparono senza accendere il fuoco.
La notte era bellissima, in un suo modo duro e smaltato. Sabbia deserta e la luna alta, mentre ai margini del cielo, dove non erano offuscate da quel fulgore bianco, le stelle brillavano con un’intensità ardente.
Lansing sentiva l’essenza della notte che si insinuava in lui, con la sua bellezza spietata e crudele e classica. A un certo momento sentì qualcosa che gli sembrava un gemito. Veniva dal sud, e sembrava il lamento della grande bestia sperduta che aveva gridato sopra la città e poi, di nuovo, sulla mesa nelle maleterre. Ascoltò attentamente, tutt’altro che sicuro di averlo udito, ma il suono non si ripeté.
— Hai sentito qualcosa? — chiese a Jurgens. Jurgens rispose che non aveva sentito nulla.
Il robot svegliò Lansing molto prima dell’alba. La luna era librata sull’orizzonte occidentale e a oriente le stelle impallidivano.
— Mangi qualcosa — disse Jurgens. — Poi ci metteremo in marcia.
— Non voglio niente, adesso — disse Lansing. — Un sorso d’acqua mi basta. Mangerò più tardi mentre camminiamo.
All’inizio fu abbastanza agevole procedere; ma verso mezzogiorno incontrarono altre dune, dapprima piccole, e poi sempre più alte. Erano in un mondo di sabbia gialla, e l’azzurro pallido del cielo era una cupola che s’incurvava a racchiudere quella sabbia. Il terreno, davanti a loro, saliva gradualmente, e dava loro la sensazione di ascendere nel duro cielo azzurro. Molto più avanti una sottile fascia di cielo al di sopra dell’orizzonte settentrionale, assunse una tinta blu più scura e carica, e via via che salivano sulle dune infide, con la sabbia che scivolava sotto i loro piedi, la fascia blu ascendeva più alta nel cielo, e dal blu della sommità si mutava in un nero fondo, poco più in basso.