Dal nord giungevano vaghi brontolii smorzati. Divennero più forti mentre lottavano contro le dune per procedere.
Jurgens si fermò sulla sommità di un’altra duna e attese che Lansing lo raggiungesse. Lansing gli arrivò al fianco, ansimando per la fatica.
— Sembra che tuoni, là avanti — disse Jurgens. — Forse sta per arrivare un temporale.
— Il colore del cielo sembra prometterlo — disse Lansing.
— Ma non pare un nembo temporalesco. Non ne ho mai visto uno delineato così nettamente. Di solito sono grandi nuvoloni ribollenti, e non vedo i lampi.
— Mi è sembrato di vederne uno, poco fa — disse Jurgens.
— Non proprio un fulmine, ma un guizzo, come il riflesso d’un lampo.
— Un lampo di calore — disse Lansing. — Un riflesso, contro le nubi, di un fulmine molto lontano.
— Fra poco vedremo che cos’è — disse Jurgens. — È pronto per proseguire? Oppure dobbiamo riposare?
— Proseguiamo. Quando avrò bisogno di riposare te lo dirò.
Verso la metà del pomeriggio la grande nube nera era salita molto al di sopra dell’orizzonte. In certi punti mostrava sfumature d’un porpora cupo. Era un fenomeno spaventoso. Sembrava immobile: non c’erano nuvole vorticanti, né banchi di vapore agitati dal vento, sebbene qualche volta Lansing avesse l’impressione, quando si soffermava un momento a guardarla, di scorgere un movimento quasi impercettibile verso il basso, come se una pellicola sottile d’una sostanza sconosciuta scorresse su quel nero, come un velo d’acqua che scende sul vetro d’una finestra durante una pioggia estiva. Un senso di violenza terribile sembrava compenetrare la nube, la minaccia opprimente del maltempo; eppure non c’era una violenza visibile, o una minaccia di maltempo, eccettuati i fulmini che scorrevano a intervalli su quella facciata di tenebre. Ormai, il rombo del tuono era incessante.
— È molto strano — disse Jurgens. — Non avevo mai visto niente di simile.
— Il Caos? — chiese Lansing. E mentre lo chiedeva, rammentò il caos, o il senso di caos (perché ormai dubitava di averlo veduto veramente) che aveva scorto quando, per un momento, era asceso sulla montagna di soli al di sopra dell’universo. E quel caos universale era stato molto dissimile, sebbene si rendesse conto che, se gli avessero chiesto di descriverlo, non avrebbe saputo assolutamente che cosa dire.
— Forse — disse Jurgens. — Lo domando a lei: che cos’è il Caos?
Lansing non tentò neppure di rispondere.
Continuarono a salire, e adesso il percorso era più scosceso di quanto lo fosse mai stato dal momento in cui erano partiti. S’inerpicarono su una serie di dune sempre più alte, e davanti a loro l’orizzonte s’incurvava, allontanandosi sulla destra e sulla sinistra, come se stessero salendo un’unica duna continua, il cui orlo fosse disposto in un semicerchio e si protendesse, su entrambi i lati, contro il nero del cielo.
Nel pomeriggio inoltrato raggiunsero la sommità della grande cresta che avevano scalato. Esausto, Lansing si lasciò cadere sulla sabbia, appoggiandosi a un grosso macigno. Un grosso macigno? si chiese. Un macigno, lì dove fino a quel momento non aveva visto nulla che fosse più voluminoso d’un granello di sabbia? Si rialzò barcollando, sbalordito, e il macigno c’era davvero… e non uno soltanto, ma parecchi, appena un poco più in basso dell’altezza massima della duna che avevano scalato. Stavano sulla sabbia come se qualcuno, forse in epoche remote, li avesse sistemati lì meticolosamente.
Jurgens era sulla sommità della duna, a gambe aperte, con la gruccia nella sabbia per puntellarsi e conservare l’equilibrio.
A destra e a sinistra s’incurvava il ciglio della duna che avevano scalato, e davanti a loro la superficie si spezzava nettamente, per precipitare in un pendio ininterrotto, fino a raggiungere il fondo della nube enorme.
Quando guardò direttamente la nube, Lansing si accorse che non era una nube, sebbene non riuscisse a capire che cosa fosse. Era una muraglia massiccia, assolutamente nera, che s’innalzava dal punto in cui incontrava la superficie del pendio sabbioso fin su su, nel cielo, così lontano che Lansing era costretto a rovesciare all’indietro la testa per vederne l’estremità superiore.
I fulmini saettavano ancora con ferocia devastante, e il tuono scrosciava e rombava. La muraglia, o almeno così gli sembrava, era una diga mostruosa eretta contro il cielo, e dall’orlo si riversava qualcosa che non era acqua e scendeva precipitando, una cascata gigantesca d’un nero intenso che non era acqua, così solida e ininterrotta che Lansing non la vedeva cadere, ma percepiva soltanto il senso ipnotico della caduta. E mentre la guardava, comprese che ciò che udiva non era solo il tuono, ma il rombo cupo e terribile di ciò che precipitava dal ciglio della diga, lo scroscio di qualcosa che cadeva da una grande altezza e piombava dall’ignoto all’ignoto. Aveva l’impressione che il terreno, sotto i suoi piedi, tremasse a quel rombo.
Girò la testa e guardò Jurgens, ma il robot non gli badò. Si appoggiava pesantemente alla gruccia, e fissava la tenebra, affascinato e ipnotizzato e irrigidito.
Lansing volse di nuovo lo sguardo alla tenebra: adesso, più che mai, sembrava una diga, anche se un attimo dopo non fu più sicuro che lo fosse. Dapprima una nube, e poi una diga; e adesso, si chiese, che cosa poteva essere?
Una cosa era certa: non era la soluzione che cercavano, non era neppure un indizio che con l’andare del tempo avrebbe potuto offrire la soluzione. Come il cubo e le porte, come l’installazione e la torre che cantava, non aveva significato. Forse non era interamente priva di significato, ma lo era per lui e per Jurgens e per gli altri umani, per l’intelligenza e la percezione che risiedono nella mente umana.
— La fine del mondo — disse Jurgens, con voce stranamente spezzata.
— La fine di questo mondo? — chiese Lansing; e appena lo ebbe detto se ne pentì, perché era una frase molto sciocca. Non sapeva immaginare perché l’avesse pronunciata.
— Forse non soltanto di questo mondo — disse Jurgens. — Non soltanto di questo mondo. La fine di tutti i mondi. La fine di tutto. L’universo scompare. Divorato da una tenebra.
Il robot avanzò d’un passo, sollevando la gruccia e cercando un punto solido per posarla. Non trovò un punto solido. La gruccia scivolò e gli sfuggì di mano. La gamba lesionata si piegò sotto il suo peso e lo sbilanciò in avanti. Jurgens cadde, ruzzolando sul declivio. Lo zaino, sbalzato dalle spalle, sdrucciolò lungo il pendio davanti a lui. Il robot mosse le mani convulsamente, cercando di afferrarsi al pendio per fermarsi, ma non c’era nulla cui potesse aggrapparsi. C’era soltanto la sabbia, e franava tutto intorno a lui, e scivolava con lui. Le mani contratte lasciavano lunghe impronte in quella sabbia.
Lansing, che s’era accosciato, si rialzò prontamente. Se fosse riuscito a restare diritto, pensò, affondando saldamente i piedi nella sabbia sotto la superficie scivolosa, avrebbe avuto una possibilità di raggiungere Jurgens e di fermarlo, di ritrascinarlo su, al sicuro.
Fece un passo, e il piede, abbassandosi, non trovò nulla di solido. La sabbia sembrava polvere. Era impossibile camminare, impossibile starvi ritto. Tentò di ributtarsi all’indietro, tendendosi disperatamente per raggiungere la sommità della duna, sperando di servirsene per sottrarsi alla superficie mobile. Ma adesso il suo piede sdrucciolava ancora più rapidamente, e scavava un solco profondo nella sabbia; slittò sul pendio, scivolò lentamente, all’attrazione della forza di gravità.