Allargò la gambe e le braccia per opporre una resistenza maggiore alla superficie sulla quale scivolava e quando lo fece gli sembrò di muoversi un poco più lentamente, sebbene fosse difficile capirlo. Non c’era speranza, ammise. Ogni suo tentativo d’inerpicarsi verso l’alto non avrebbe fatto altro che smuovere la sabbia facendola slittare più rapidamente e trascinandolo verso il basso.
Ma adesso il movimento discendente era rallentato un po’, e per un attimo parve che la frana si fosse arrestata. Giaceva sulla sabbia, con le braccia larghe e le gambe divaricate, senza osare muoversi, temendo che il minimo movimento da parte sua facesse ricominciare la frana.
Non sapeva dove fosse Jurgens, e quando cercò di muovere la testa per guardare più in basso, nella speranza di scorgerlo, la sabbia ricominciò a scivolare: ributtò la testa all’indietro e la premette contro la superficie. Lo slittamento cessò.
Trascorsero intere eternità, o almeno così gli parve. Il terreno sembrava tremare ancora al rombo della grande cascata nera. Il frastuono cancellava quasi completamente ogni percezione. Dal punto in cui stava disteso riusciva a scorgere appena la sommità della duna che lui e Jurgens avevano scalato. Era distante una sessantina di metri, calcolò. Se fosse riuscito a trascinarsi per quella sessantina di metri… ma, lo sapeva, era impossibile.
Concentrò tutta l’attenzione su quella cresta impossibile, come se concentrandosi potesse trovare la possibilità di raggiungerla. La cresta della duna rimaneva immobile e vuota, una linea di sabbia contro l’azzurro del cielo.
Per un momento girò gli occhi per scrutare l’estensione apparentemente sconfinata del pendio sul quale era disteso. Quando tornò a guardare la sommità della duna, là c’era qualcuno… quattro figure allineate contro il cielo. Stavano lassù e lo guardavano, e le loro facce erano parodie grottesche e sconvolgenti di volti umani.
A poco a poco comprese chi erano… i quattro giocatori di carte che aveva visto seduti intorno al tavolo, isolati da tutti gli altri, in due diverse locande; e adesso erano lì e lo fissavano, con quelle loro facce scheletrite.
Perché mai erano lì? si chiese. Che cosa li aveva condotti lì? Cosa poteva esserci, in quel luogo, che destasse il loro interesse? Per un momento pensò di chiamarli, e poi decise che sarebbe stato inutile. Se li avesse chiamati, quelli si sarebbero limitati a ignorarlo, e la situazione sarebbe divenuta anche peggiore. Si chiese se erano là veramente. O forse era uno scherzo della sua immaginazione? Distolse gli occhi e poi guardò di nuovo: c’erano ancora.
Uno dei quattro, vide, teneva in mano qualcosa, e Lansing cercò di capire che cosa fosse, ma non ci riuscì. Poi il giocatore di carte alzò la mano e la fece roteare al di sopra della testa. In quell’istante Lansing comprese che cos’era: era un rotolo di corda. I giocatori di carte stavano lanciando una corda!
La corda volò nell’aria, srotolandosi mentre saettava verso di lui. Avrebbe avuto una possibilità, Lansing lo sapeva, al massimo un paio di possibilità. Se avesse dovuto slanciarsi per afferrare la corda, avrebbe ricominciato a scivolare, e prima che la fune venisse ritirata, avvolta di nuovo e lanciata, sarebbe stato ormai al di fuori della sua portata.
La corda parve restare sospesa nell’aria, quasi senza muoversi, e continuò a srotolarsi. Quando piombò, gli piombò addosso, in un lancio perfetto. Lansing tese le mani più disperatamente di quanto fosse necessario, l’afferrò con una mano, rotolò su se stesso per stringerla anche con l’altra. Aveva ripreso a scivolare, con quel movimento, a scivolare molto rapidamente. Strinse più forte la presa, con una mano, una stretta convulsa. Poi posò anche l’altra mano sulla corda, e si sentì bloccare, con uno strattone violento, quando l’intera lunghezza della fune si tese. Restò aggrappato furiosamente, e adagio adagio incominciò a issarsi su per il pendio. Continuò a tenersi schiacciato contro la superficie, per evitare il pericolo di lasciarsi sfuggire la corda. Spanna a spanna, si issò verso l’alto. Finalmente si arrestò per riprendere fiato e guardò verso la cresta. Era deserta; i giocatori di carte se ne erano andati. E allora, si chiese, chi reggeva la corda? Ebbe la visione agghiacciante dell’altro capo della fune che si staccava, s’inerpicò come un pazzo, senza pensare a nulla, senza curarsi di nulla. La sola cosa che contava era raggiungere il ciglio della duna prima che la corda si staccasse. Poi sentì il proprio corpo scivolare al di là dell’orlo. Soltanto allora smise di arrampicarsi.
Rotolò su se stesso e si sollevò a sedere. Non lasciò la fune fino a quando fu seduto saldamente, sulla superficie solida. Allora allentò la stretta. Vide che la corda era legata intorno ad uno dei macigni che aveva notato con una certa sorpresa quando lui e Jurgens avevano salito la cresta affacciata sul pendio esiziale.
Jurgens! pensò. Jurgens, oh, mio Dio! Negli ultimi minuti dell’ascesa disperata (erano stati minuti, non ore?) aveva completamente dimenticato il robot.
Si trascinò carponi su per il pendio, raggiunse la sommità della duna e restò disteso, a scrutare il lungo, liscio scivolo di sabbia. La traccia che aveva lasciato inerpicandosi veniva rapidamente cancellata dai lenti rivoli di sabbia fluida. Ancora pochi minuti, e non sarebbe rimasto nulla a indicare che lui era stato là.
Non c’era segno di Jurgens, lo sapeva, era andato… andato al di là del confine dove la grande tenebra scendeva a incontrare la sabbia.
Il robot non aveva gridato, ricordava, non aveva gridato per chiedere soccorso, non l’aveva chiamato per nome, non aveva invocato aiuto. Era andato in silenzio incontro alla fine… o, se non la fine, incontro a ciò che l’attendeva ai piedi del pendio. E s’era comportato così, ne era certo, per riguardo verso di lui, per non coinvolgere lui, l’umano Lansing, nell’incidente irrimediabile.
Era stato un incidente? si chiede dubbiosamente. Ricordava che Jurgens era rimasto affascinato davanti alla tremenda tenebra tonante… come Sandra era rimasta affascinata di fronte alla torre che cantava. E ricordava come Jurgens aveva mosso il primo passo dal punto dove stava, sull’orlo estremo della sicurezza, come doveva sapere indubbiamente: ma aveva mosso quel passo per avvicinarsi alla cosa terribile che l’affascinava.
Era stato attratto com’era stata attratta Sandra? C’era stato qualcosa, nella cortina di tenebra, che l’aveva chiamato? Aveva compiuto quel passo volontariamente, senza immaginare che sarebbe precipitato giù per il pendio, eppure volontariamente, adesso che era accaduto… nella smania inconscia, ignara ma travolgente di avvicinarsi a ciò che l’aveva incantato?
Lansing scrollò la testa. Era impossibile saperlo.
Ma se era davvero così, pensò, allora finalmente Jurgens, il robot, aveva compiuto una mossa esclusivamente sua, aveva agito per se stesso e non per gli uomini affidati alla sua custodia. Aveva agito come aveva sempre desiderato e non come gli imponeva la sua devozione agli umani. In quel momento supremo, Jurgens aveva trovato la libertà che cercava.
Lansing si alzò in piedi, lentamente. Slegò l’estremità della corda dal macigno e incominciò a riavvolgerla, metodicamente. Forse non era necessario riavvolgerla, avrebbe potuto lasciarla cadere. Ma almeno, così aveva qualcosa da fare.
Quando ebbe finito di arrotolarla, la posò al suolo e si guardò intorno per cercare i giocatori di carte. Ma non c’erano, e niente indicava che fossero mai stati lì. Più tardi, si disse, avrebbe pensato a loro. Adesso non aveva il tempo per riflettere su quel problema. C’era qualcosa che doveva fare, e al più presto possibile.
Doveva ritornare alla torre che cantava, dove Mary stava ancora vegliando l’affascinata Sandra.