XXVI
S’incamminò barcollando verso sud, seguendo a ritroso le tracce che lui e Jurgens avevano lasciato mentre si dirigevano verso nord. In certi tratti erano già state ricoperte dalla sabbia, ma ogni volta riuscì a ritrovarle un poco più avanti. Sentiva ancora il rombo, dietro di lui, il suono sempre più lontano del Caos. E che cos’era il Caos? si chiedeva mentre avanzava faticosamente. Ma ormai non aveva più importanza. La sola cosa che contava era ritornare da Mary.
Venne la notte e spuntò la luna, un globo rigonfio che saliva dall’oriente, e si accesero le prime stelle. Continuò a camminare, ostinatamente. Avrebbe dovuto essere più agevole, si disse, perché adesso il percorso era in discesa. Ma non sembrava più agevole.
Stramazzò e restò disteso sulla sabbia, incapace di proseguire, incapace di rialzarsi. Si girò sul dorso e cercò a tentoni la borraccia. E mentre la cercava, piombò in un sonno inquieto.
Si svegliò nel fulgore del sole, e per un momento si chiese dov’era. Si sollevò su un gomito per guardarsi intorno; ma non c’era nulla, tranne sabbia accecante che rifletteva il bagliore del sole. Alzò un pugno e si soffregò gli occhi… e ricordò dov’era, ricordò che doveva proseguire.
Si alzò e si scosse. Reggendosi a stento, perché non era ancora sveglio completamente, sollevò la borraccia e bevve un po’ di liquido tiepido. La tappò e incominciò a camminare, scendendo lungo la traccia che aveva lasciato all’andata. Cercò a tentoni qualcosa da mangiare, la prima cosa che le sue dita trovarono nello zaino, e masticò senza fermarsi. Non poteva fermarsi, doveva continuare la marcia verso sud. Le gambe irrigidite dal sonno protestavano; ma continuò a muoverle e a poco a poco ritrovarono la scioltezza. La sua gola gridava invocando l’acqua, ma non bevve, perché l’acqua nella borraccia era poca e doveva conservarla. (Soltanto diverse ore più tardi ricordò che nello zaino c’era una seconda borraccia piena.) La sabbia intorno a lui s’increspava e ondeggiava nella luce cruda del sole. Aveva dormito più a lungo di quanto avrebbe dovuto, perdendo tempo prezioso, e quel pensiero lo sferzava, lo costringeva a proseguire.
A volte pensava a Jurgens, ma non molto spesso, e mai a lungo. Anche questo, si diceva, l’avrebbe fatto più tardi. Cercò di concentrarsi sul pensiero di Mary che l’attendeva alla torre. Ma a volte anche il pensiero di Mary gli sfuggiva, e allora piombava in un vuoto, e ricordava un’unica cosa, si aggrappava ad un’unica certezza… doveva raggiungere la torre che cantava.
Arrivò alla fine delle dune e, sebbene la pista adesso fosse più indistinta, riuscì comunque a seguirla perché il suolo era ancora sabbioso. Il sole toccò lo zenith e incominciò a declinare verso occidente. Ora che era più facile procedere (il terreno era più piatto, e le dune erano meno numerose e più basse), cercò di affrettarsi, ma non riuscì a muovere le gambe più rapidamente. Non poteva far più che procedere a un passo pesante e regolare. E non era sorprendente, si diceva. Era il terzo giorno d’un viaggio tortuoso. Ma comunque inveiva contro se stesso perché non sapeva camminare più svelto.
Il sole tramontò e a oriente le stelle si accesero e il cielo s’illuminò allo spuntar della luna. Lansing continuò a camminare. Se avesse continuato, se fosse riuscito a continuare, avrebbe potuto arrivare alla torre che cantava prima dell’alba.
Ma il suo corpo lo tradì. Le gambe cedettero, e alla fine fu costretto a fermarsi. Si trascinò al riparo dal vento, contro una piccola duna, e si tolse lo zaino. Trovò la seconda borraccia e tutta l’acqua che gli occorreva: ebbe cura di non bere troppo. Trovò una salsiccia dura e un pezzo di formaggio tenero e li divorò, affamato.
Sarebbe rimasto seduto a riposare un po’, si ripromise, ma non si sarebbe addormentato. Tra un’ora o poco più avrebbe potuto riprendere il cammino. Si assopì e, quando si svegliò, la prima luce dell’alba faceva impallidire le stelle a oriente.
Imprecando contro il sonno, si alzò a fatica, mise lo zaino in spalla e riprese la marcia verso sud. Aveva promesso a Mary che non sarebbe rimasto assente più di quattro giorni, e avrebbe mantenuto la promessa.
Davanti a lui stavano le dune, e la fine del percorso più facile. In quel tratto, prima di raggiungere le dune, doveva procedere più in fretta che poteva, perché le dune l’avrebbero costretto a rallentare.
Perché era tanto agitato? si chiese. Non era necessario affrettarsi. Mary era al sicuro. Lo stava aspettando ed era al sicuro. Ma quei pensieri non bastavano a confortarlo. Non rallentò l’andatura.
Poco dopo mezzogiorno arrivò alla duna dove avevano trovato la macchina camminante sfasciata. Il teschio dallo scintillante dente d’oro gli rivolse un sogghigno idiota. Lansing non si fermò.
Arrivò alle dune e le affrontò come un disperato. Poche ore appena, si disse. Sarebbe arrivato alla torre prima che tramontasse il sole, e avrebbe potuto stringere Mary tra le braccia. Dopo un’ora o poco più, dalla cima d’una delle dune più alte scorse la torre, e quella vista lo spronò a procedere.
Durante l’intera marcia attraverso il deserto aveva conservato nella mente la visione piuttosto nebulosa di Mary che gli correva incontro e lo chiamava gioiosamente, con le braccia tese, mentre lui scendeva l’ultimo tratto. Ma non fu così. Mary non gli corse incontro per accoglierlo. Non c’era traccia di lei. Dal bivacco non saliva neppure un filo di fumo. Non c’era nessuno, neppure Sandra.
E poi, mentre scendeva correndo verso l’accampamento, vide Sandra. Era raggomitolata contro la base della torre che cantava. Non si muoveva. Il vento agitava lievemente la sciarpa che portava al collo, ed era tutto.
Lansing si fermò, barcollando. Una mano gelida gli toccò il cuore, un brivido di panico lo scosse.
— Mary! — gridò. — Mary, sono tornato! Dove sei?
Mary non rispose. Nulla gli rispose.
Sandra doveva sapere, si disse. Doveva essersi addormentata, ma l’avrebbe svegliata, e lei gliel’avrebbe detto.
Le s’inginocchiò accanto e la scosse delicatamente. C’era qualcosa di strano… Sandra non pesava nulla. La scosse ancora e la spinta la fece girare. Lansing vide la faccia. Era la faccia raggrinzita d’una mummia.
Ritrasse di scatto la mano dalla spalla di Sandra, e il viso ricadde, non più rivolto verso di lui. Morta, pensò… come se fosse morta da mille anni! Incartapecorita nei suoi indumenti che svolazzavano al vento, un guscio vuoto dal quale erano state risucchiate completamente la vita e la sostanza!
Si alzò di nuovo e si voltò di scatto. Vacillando, si accostò al fuoco e tese le mani sopra le ceneri grige. Non sentì calore. Frugò nella cenere, e il fuoco era morto, non era rimasta neppure una brace. Accanto al fuoco spento c’era uno zaino, uno soltanto. Quello di Sandra, molto probabilmente. Lo zaino di Mary non c’era più.
Si lasciò cadere subito. Era stordito… insensibile all’orrore e all’angoscia.
Sandra era morta e Mary non c’era più e il fuoco… il fuoco, pensò, doveva aver impiegato ore per estinguersi completamente. Mary se n’era andata molte ore prima.
La sua mente si liberò, in parte, dal torpore, e il terrore si avventò a colmare il vuoto, ma Lansing lottò per scacciarlo.
Non aveva tempo per abbandonarsi al terrore o al panico. Era il momento di riflettere, di cercare di riflettere, di ricomporre tutti i frammenti, e cercare di capire cos’era accaduto.
Il campo era abbandonato. Jorgenson e Melissa non c’erano, ma questo non significava nulla. Forse sarebbero tornati più tardi. Quando erano partiti s’erano accordati tutti per ritornare entro quattro giorni, e il quarto giorno non era ancora finito.
Sandra era morta, e sembrava morta da un tempo lunghissimo sebbene non fosse possibile. Era ancora viva quattro giorni prima, meno di quattro giorni prima. La torre, si disse amaramente, illogicamente, l’aveva risucchiata e s’era nutrita di lei, l’aveva consumata fino a non lasciare più nulla. L’aveva risucchiata, forse, perché Sandra aveva voluto così, si era abbandonata spontaneamente, in omaggio alla percezione della bellezza che aveva scoperto nella torre.