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Uscendo a grandi passi dall’alta casa di un mercante dove viveva Masema, Perrin lasciò che il vento sferzasse il suo mantello bordato di pelliccia mentre si infilava i guanti. Il sole di mezzogiorno non forniva calore sufficiente, e l’aria mordeva fin nel profondo. Il suo volto restava calmo, ma il freddo lo irritava particolarmente. Gli costava un grosso sforzo tenere lontane le mani dall’ascia alla sua cintura. Masema — non avrebbe chiamato quell’uomo Profeta, non nella sua testa! — Masema, molto probabilmente, era uno sciocco, e di certo completamente folle. Uno sciocco influente, molto più di tanti re, e fanatico.

Le guardie di Masema riempivano le strade da un lato all’altro e si estendevano attorno agli angoli delle strade successive, individui ossuti vestiti di sete rubate, apprendisti imberbi con giacche strappate, mercanti un tempo corpulenti in quello che rimaneva di raffinati abiti di lana. Il loro respiro era una nebbiolina bianca e alcuni senza mantello tremavano, ma ogni uomo stringeva una lancia o una balestra carica. Nessuno tuttavia sembrava apertamente ostile. Sapevano che lui sosteneva di aver familiarità col Profeta e lo guardavano a bocca aperta come se si aspettassero che facesse un balzo e si mettesse a volare. O almeno a fare salti mortali. Ignorò l’odore del fumo che proveniva dai comignoli della città. Loro puzzavano tutti di sudore vecchio e corpi non lavati, di entusiasmo e paura. E di una strana febbre che non aveva riconosciuto prima, un riflesso della follia di Masema. Ostile o no, a un ordine di Masema avrebbero ucciso lui, o chiunque altro. Avrebbero massacrato intere nazioni solo ascoltando un comando di Masema. Al loro odore, percepì un sensazione di freddo più profonda di qualunque vento invernale. Era più lieto che mai di aver rifiutato che Faile andasse con lui.

Gli uomini che aveva lasciato coi cavalli stavano accanto agli animali a giocare a dadi, o fingevano di farlo, sfruttando uno spazio di selciato quasi del tutto liberato dalla neve in poltiglia. Per quanto lo riguardava, non si fidava di Masema, e nemmeno loro. Stavano prestando più attenzione alla casa e alle guardie che non alla loro partita. I tre Custodi scattarono in piedi non appena lui apparve, gli occhi puntati verso le sue compagne uscite subito dopo di lui. Sapevano quello che le loro Aes Sedai avevano provato lì dentro. Neald fu più lento perché si fermò per raccogliere i dadi e le monete. L’Asha’man era un damerino che camminava impettito, ammiccava alle donne e intanto si carezzava i baffi, ma ora restò sui calcagni, cauto come un gatto.

«Pensavo che ci saremmo dovuti far strada fuori da qui combattendo» mormorò Elyas all’orecchio di Perrin. I suoi occhi ambrati erano calmi, però. Era un uomo anziano alto e dinoccolato con un cappello a tesa larga, capelli ingrigiti che gli scendevano lungo la schiena e una lunga barba che gli cadeva sul petto. Alla cintura portava un lungo coltello, non una spada. Ma era stato un Custode. In un certo senso lo era ancora.

«È l’unica cosa che è andata liscia» gli disse Perrin, prendendo le redini di Resistenza da Neald. L’ Asha’man aggrottò un sopracciglio con aria interrogativa, ma Perrin scosse il capo, incurante di quale fosse la domanda, e Neald, contorcendo la bocca, porse a Elyas le redini del suo castrone grigio prima di montare sul pezzato. Perrin non aveva tempo per i bronci del Murandiano. Rand l’aveva mandato per riportare indietro Masema, e Masema non voleva venire. Come sempre ultimamente quando pensava a Rand, nella testa gli turbinavano dei colori e, come sempre, li ignorò. Masema era un problema troppo serio perché Perrin perdesse tempo a preoccuparsi dei colori. Quel dannato uomo pensava che fosse una blasfemia che chiunque eccetto Rand toccasse l’Unico Potere. Rand, a quanto pareva, non era davvero mortale; era la Luce incarnata! Perciò non avrebbero Viaggiato, nessun rapido balzo a Cairhien attraverso un passaggio aperto da uno degli Asha’man, non importa quanto Perrin avesse tentato di convincere Masema. Avrebbero dovuto cavalcare per quattrocento leghe o forse più, solo la Luce sapeva attraverso cosa. E tenere segrete le loro identità, e quella di Masema. Quelli erano gli ordini di Rand.

«C’è un unico modo, per come la vedo io, ragazzo» disse Elyas come se Perrin avesse parlato ad alta voce. «Un’esile possibilità. Comunque potevamo avere migliori probabilità dando una botta in testa a quel tipo e facendoci strada combattendo.»

«Lo so» ringhiò Perrin. Ci aveva pensato più di una volta durante le ore passate a discutere. Se Asha’man, Aes Sedai e Sapienti avessero tutti incanalato, sarebbe stato possibile. Ma aveva visto una battaglia combattuta con l’Unico Potere, uomini dilaniati in frammenti sanguinolenti in un batter d’occhio, la terra stessa che eruttava fuoco. Abila si sarebbe trasformata in un mattatoio ancor prima che avessero finito. Non avrebbe guardato mai più una cosa del genere, se poteva fare come voleva.

«Cosa credi che penserà il Profeta di questo?» chiese Elyas. Perrin dovette sgombrare la mente dai pozzi di Dumai e dall’immagine di Abila ridotta nello stesso stato, prima di poter capire di cosa stava parlando Elyas. Oh. Come stava per fare l’impossibile. «Non mi importa cosa ne penserà.» L’avrebbe considerato un problema, questo era certo. Con aria irritata, si accarezzò la barba. Doveva spuntarsela. O meglio, farsela spuntare. Se avesse preso le forbici, Faile gliele avrebbe tolte di mano e le avrebbe date a Lamgwin. Sembrava ancora impossibile che quel ceffo, con la sua faccia sfregiata e le nocche infossate, conoscesse il mestiere di servitore. Luce! Un servitore. La relazione con Faile e le sue strane usanze saldeane andava migliorando, ma più lui ci si abituava, più lei riusciva a far andare le cose come meglio credeva. Era quello che le donne facevano sempre, naturalmente, ma talvolta pensava di aver scambiato un tipo di uragano per un altro. Forse lui avrebbe potuto provare a usare quel tipo di urla imperiose che sembravano piacerle tanto. Un uomo avrebbe dovuto poter usare le forbici sulla propria barba, se voleva. Dubitava che l’avrebbe fatto, però. Urlarle contro era già abbastanza duro quando era lei a cominciare. Era sciocco pensarci adesso, comunque.

Esaminò gli altri che si dirigevano verso i cavalli allo stesso modo in cui avrebbe esaminato gli attrezzi che gli servivano per una dura sessione di lavoro. Temeva che Masema avrebbe reso questo viaggio peggiore di qualunque lavoro aveva mai intrapreso, e i suoi attrezzi erano pieni di crepe. Seonid e Masuri si fermarono accanto a lui, i cappucci dei loro mantelli ben tirati in avanti a nascondere i loro volti nell’ombra. Un affilato tremore orlava il flebile aroma dei loro profumi, paura sotto controllo. Se avesse fatto a modo suo, Masema le avrebbe uccise lì sul posto. Le guardie avrebbero potuto ancora farlo, se avessero riconosciuto dei volti da Aes Sedai. Erano in numero tale che doveva esserci qualcuno in grado di farlo. Masuri era più alta di quasi un palmo, ma Perrin poteva comunque guardarle tutte dall’alto in basso. Ignorando Elyas, le sorelle si lanciarono occhiate al riparo dei loro cappucci; poi Masuri parlò piano.

«Capite ora perché dev’essere ucciso? Quell’uomo è... un fanatico.» Be’, la Marrone era un tipo che misurava di rado le parole. Per fortuna, nessuna delle guardie era a distanza d’udito.

«Potresti scegliere un posto migliore per dire una cosa simile» la rimproverò. Non voleva sentire altre discussioni, né ora né poi. Edarra e Carelle si profilarono dietro l’Aes Sedai, gli scialli scuri già avvolti attorno alle teste. Le punte che pendevano sul petto e sulla schiena non sembravano offrire alcuna protezione dal freddo, d’altra parte era la neve ciò che infastidiva di più le Sapienti, o meglio la sola esistenza di una cosa del genere. I loro volti scuriti dal sole potevano essere scolpiti per tutto ciò che rivelavano, tuttavia il loro odore era uno spuntone d’acciaio. Gli occhi azzurri di Edarra, di solito così placidi da sembrare strani nelle sue fattezze giovanili, erano duri quanto quello spuntone. Ovviamente, la sua compostezza mascherava acciaio. Acciaio affilato.