Obara era la maggiore delle Serpi delle Sabbie, la schiera di figlie illegittime generate da Oberyn Martell, il guerriero chiamato Vipera rossa, defunto principe di Dorne. Era una donna dall’ossatura robusta, sulla trentina, gli occhi ravvicinati e i capelli color topo della puttana di Vecchia Città che l’aveva partorita. Sotto la cappa di seta cruda, screziata di grigio scuro e oro, indossava una tenuta da cavallo di cuoio marrone, ammorbidito dall’uso. L’unica cosa morbida in lei. Obara aveva una frusta arrotolata al fianco, e di traverso sulla schiena portava uno scudo rotondo di acciaio e rame. Aveva lasciato la lancia bene in vista sopra il mantello, cosa di cui Areo Hotah le fu grato. Per quanto lei fosse forte e veloce, Hotah sapeva che non avrebbe retto a un confronto con lui… ma Obara lo ignorava. Quanto a lui, non aveva alcuna intenzione di versare del sangue su quel marmo rosa pallido.
Maestro Caleotte spostò il peso del corpo da un piede all’altro. «Lady Obara, come ho cercato di dirti…»
«Lui sa che mio padre è morto?» chiese Obara al capitano, non prestando al maestro più attenzione che a una mosca, se mai una mosca fosse stata così sventata da ronzarle attorno alla testa.
«Sì» confermò Hotah. «Ha ricevuto un corvo messaggero.»
La morte era arrivata a Dorne su ali brune, poche parole vergate in una grafia minuta, sigillate da un grumo di dura ceralacca rossa. Caleotte doveva avere intuito il tenore del messaggio, perché lo aveva dato a Hotah, in modo che fosse lui a consegnarlo. Il principe lo aveva ringraziato, ma aveva lasciato passare molto tempo prima di spezzare il sigillo. Per tutto il pomeriggio era rimasto con la pergamena posata in grembo, osservando i bambini che giocavano. Aveva continuato a guardarli fino a quando il sole era tramontato e l’aria della sera si era fatta fredda al punto di costringerli a rientrare, poi aveva osservato la luce delle stelle riflettersi sull’acqua. Al sorgere della luna aveva mandato Hotah a prendere una candela, così da poter leggere il messaggio sotto gli alberi di arancio, circondato dall’oscurità della notte.
Obara sfiorò la frusta che aveva al fianco. «A migliaia stanno attraversando le sabbie a piedi, scalando la strada delle Ossa, per aiutare Ellaria a riportare a casa mio padre. I templi dei Sette Dèi sono stracolmi di gente e i preti rossi hanno acceso i loro fuochi sacri. Nelle case di piacere, le donne si accoppiano con qualsiasi uomo si presenti, e rifiutano il conio. A Lancia del Sole, sul Braccio Spezzato, lungo il Sangue Verde, tra le montagne, nel cuore del deserto, dovunque, le donne si strappano i capelli e gli uomini urlano di furore. Un’unica domanda si ode in tutti i linguaggi: che cosa farà Doran Martell? Che cosa farà per vendicare l’assassinio di suo fratello?» Obara si avvicinò al capitano delle guardie. «E ora tu dici che non desidera essere disturbato?»
«Il principe non desidera essere disturbato» ripeté Hotah.
Il capitano delle guardie conosceva il signore su cui vegliava. Un tempo, molto tempo prima, lui era stato un giovane temerario dalle spalle ampie e dai folti capelli neri, venuto da Norvos. Ora quei capelli erano bianchi, e il suo corpo era segnato dalle cicatrici di troppe battaglie… ma la sua forza era rimasta intatta, e la sua ascia lunga era sempre bene affilata, proprio come gli avevano insegnato i preti barbuti. "Non passerai, Obara" giurò Hotah a se stesso.
«Il principe sta guardando i bambini che giocano» disse a Obara. «Non va mai disturbato quando guarda i bambini che giocano.»
«Hotah» intimò Obara Sand «tu adesso ti toglierai di mezzo. Altrimenti, prendo quell’ascia lunga e…»
«Capitano Hotah!» Il comando gli arrivò da dietro le spalle. «Lasciala passare. Parlerò con lei.» La voce di Doran Martell, principe di Dorne, era roca.
Areo Hotah con un gesto secco riportò in verticale la sua lunga ascia e fece un passo di lato. Obara gli scoccò un’ultima, insistente occhiata e lo superò, mentre il maestro si affrettava dietro di lei. Caleotte non era alto più di cinque piedi, pelato come un uovo. La sua faccia era talmente liscia e grassa da rendere difficile dargli un’età, ma era a Dorne da prima di Hotah, e aveva servito addirittura la madre del principe. A dispetto degli armi e del suo girovita, era ancora agile nei movimenti, e anche molto intelligente, per quanto mansueto. "Non può reggere il confronto con nessuna delle Serpi delle Sabbie" pensò il capitano.
All’ombra degli alberi di arancio, il principe di Dorne sedeva sulla sua sedia a ruote, le gambe tenute sollevate per via della gotta, spesse borse sotto gli occhi… Che cosa lo rendesse insonne, se il dolore del lutto o quello della gotta, Hotah non era in grado di dirlo. Più in basso, fra gli stagni e le fontane, i bambini continuavano a giocare. I più piccoli non arrivavano ai cinque anni, i più grandi ne avevano nove o dieci. Metà erano femmine e metà maschi. Hotah poteva udirli giocare nell’acqua, gridando gli uni con gli altri con voci stridule.
«Non è passato molto tempo da quando anche tu eri una bambina che giocava negli stagni, Obara» disse il principe, mentre lei metteva un ginocchio a terra di fronte alla sedia a ruote.
Obara rispose con una specie di grugnito. «Sono passati vent’anni, forse più, ma questo non ha importanza. E io non ho vissuto qui a lungo. Sono la progenie di una puttana, o forse lo hai dimenticato?» Il principe Doran non rispose. Obara si rialzò, mani sui fianchi. «Mio padre è stato assassinato.»
«Tuo padre è caduto in singolar tenzone durante un processo per duello» precisò il principe Doran. «Secondo la legge, non si tratta di assassinio.»
«Era tuo fratello.»
«È vero.»
«Che cosa intendi fare riguardo alla sua morte?»
Il principe fece ruotare faticosamente la sedia verso di lei. Per quanto non avesse nemmeno cinquantadue anni, Doran Martell sembrava molto più anziano. Sotto le tuniche di lino, il suo corpo appariva flaccido e sformato, le gambe offrivano uno spettacolo orribile. La gotta gli aveva gonfiato e arrossato le articolazioni in modo grottesco. Il ginocchio sinistro era una mela, quello destro un melone, le dita dei piedi avevano il colore dell’uva nera, ed erano così gonfie da dare l’impressione di poter scoppiare al minimo sfioramento. Perfino il peso di un copriletto bastava a fare sussultare il principe, per quanto fosse solito sopportare il dolore senza lamentarsi. "Il silenzio è il miglior amico di un principe" il capitano delle guardie lo aveva udito dire a sua figlia un giorno. "Le parole, Arianne, sono come le frecce. Una volta scagliate, non puoi più farle tornare indietro."
«Ho scritto a lord Tywin…» riprese il principe Doran.
«Scritto? Se tu valessi anche solo metà dell’uomo che era mio padre…»
«Io non sono tuo padre.»
«Questo lo so bene!» La voce di Obara grondava disprezzo.
«Tu vorresti che io rispondessi con la guerra.»
«Ho una proposta migliore. Non dovrai neppure lasciare il tuo scanno. Lascia che sia io a vendicare mio padre. Hai un esercito sul passo del Principe. Lord Yronwood ne ha un altro sulla strada delle Ossa. Da’ a me il comando di uno degli eserciti, e a Nym il comando dell’altro. Lascia che Nym cavalchi lungo la strada del Re, mentre io chiamerò i lord delle Terre Basse fuori dai loro castelli, spostandomi a uncino per marciare su Vecchia Città.»
«E come speri di conquistare Vecchia Città?»
«Sarà sufficiente saccheggiarla. La ricchezza degli Hightower…»
«È l’oro che vuoi?»
«Voglio il sangue.»
«Lord Tywin Lannister ci consegnerà la testa della Montagna che cavalca.»
«E chi ci consegnerà la testa di lord Tywin Lannister? La Montagna è sempre stato il suo cucciolo favorito.»
Il principe fece un cenno verso gli stagni. «Obara, per piacere, guarda quei bambini.»
«Ricaverei un piacere molto maggiore conficcando la mia lancia nel ventre di lord Tywin. Gli farò cantare Le piogge di Castamere mentre gli tiro fuori le viscere alla ricerca dell’oro dei Lannister.»