«Guardali!» ripeté il principe. «Te lo ordino.»
Alcuni bambini più grandi erano sdraiati a faccia in giù sul liscio marmo rosa, a farsi scaldare dal sole. Altri nuotavano nel mare poco più in là. Tre di loro stavano costruendo un castello di sabbia, sormontato da un grande rostro che assomigliava alla Torre della lancia dell’Antico Palazzo. Un altro gruppetto si era radunato sulla riva dello stagno grande, a guardare i bambini che giocavano: avanzavano nell’acqua alta fino alla cintola, un grande tenendo sulle spalle uno più piccolo, e cercavano di disarcionarsi a vicenda. Ogni volta che una coppia cadeva, il tonfo era seguito da una ventata di risate. Videro una ragazzina dalla pelle scura come una nocciola strappare un bambino dai capelli color stoppa dalle spalle del compagno, mandandolo a capofitto nell’acqua.
«Un tempo, anche tuo padre giocava così, e anch’io prima di lui» disse il principe. «Avevamo dieci anni di differenza, e io avevo già lasciato gli stagni quando Oberyn fu abbastanza grande per giocare, ma quando facevo visita a nostra madre, mi fermavo a guardarlo. Era così fiero, anche da ragazzo. E rapido come un serpente d’acqua. Spesso l’ho visto abbattere ragazzi molto più grossi di lui. Ricordo il giorno in cui partì per Approdo del Re. Giurò che lo avrebbe fatto un’altra volta, altrimenti non gli avrei mai permesso di andare.»
«Permesso di andare?» Obara rise. «Come se tu avessi realmente potuto fermarlo. La Vipera rossa di Dorne andava sempre dove voleva.»
«Proprio così. Vorrei avere parole di conforto per…»
«Non vengo da te in cerca di conforto, Doran!» La voce di Obara era piena di scherno. «Il giorno in cui mio padre si presentò a far valere i propri diritti, mia madre non voleva che andassi. "È una femmina" gli disse "e io non so nemmeno se sei suo padre. Ho avuto mille uomini." Lui gettò la lancia ai miei piedi, diede un manrovescio a mia madre e lei scoppiò a piangere. "Maschio o femmina, noi combattiamo le nostre battaglie" le disse "ma gli dèi ci lasciano la scelta delle armi." Indicò la lancia e io, senza prestare attenzione alle lacrime di mia madre, la raccolsi. "Ti avevo detto che era figlia mia" asserì mio padre, e mi portò con sé. Mia madre si uccise col bere quello stesso anno. Dicono che è morta piangendo.» Obara si avvicinò al principe seduto sulla sua sedia a ruote. «Lasciami usare la lancia: non chiedo altro.»
«Tu chiedi un patto, Obara. Ci dormirò sopra.»
«Hai già dormito fin troppo.»
«Forse hai ragione. Ti manderò un messaggio a Lancia del Sole.»
«Basta che quel messaggio sia guerra.»
Obara girò sui tacchi e si allontanò, rabbiosa come era arrivata, diretta verso le stalle dove avrebbe preso un cavallo fresco per ripartire subito al galoppo.
Maestro Caleotte invece rimase. «Mio principe?» chiese il piccolo uomo grassoccio. «Le gambe ti fanno soffrire?»
Il principe accennò un breve sorriso. «Il sole riscalda?»
«Vuoi che ti prepari un decotto per calmare il dolore?»
«No. Ho bisogno di avere la mente lucida.»
Il maestro esitò. «Mio principe, è… prudente permettere a lady Obara di fare ritorno a Lancia del Sole? È certo che infiammerà il popolo. Tutti, là, amavano tuo fratello.»
«Tutti noi lo amavamo.» Il principe Doran si premette le tempie con le dita. «No, hai ragione. Devo tornare anch’io a Lancia del Sole.»
L’uomo grassoccio esitò. «È una saggia decisione?»
«Non è saggia, ma necessaria. Meglio mandare una staffetta a Ricasso, in modo che preparino i miei appartamenti nella Torre del Sole. Informa mia figlia Arianne che arriverò là domani mattina.»
"La mia piccola principessa." Al capitano, Arianne mancava terribilmente.
«Ti vedranno» ammonì il maestro.
Il capitano capì. Due anni prima, quando avevano lasciato Lancia del Sole diretti alla pace e all’isolamento dei Giardini dell’Acqua, la gotta del principe Doran non era neppure lontanamente grave come adesso. In quei giorni, il principe riusciva ancora a camminare, sia pure con lentezza, appoggiandosi a un bastone, stringendo gli occhi a ogni passo per il dolore. Il principe non voleva che i suoi nemici sapessero com’era ridotto, e l’Antico Palazzo e la città che si stendeva nella sua ombra erano pieni di occhi indiscreti. "Occhi" pensò il capitano "e scale che il principe non è in grado di salire. Dovrebbe saper volare per raggiungere la sommità della Torre del Sole."
«Mi devono vedere. Qualcuno deve calmare gli animi. Una cosa va ricordata: Dorne ha ancora un principe.» Doran Martell sorrise debolmente. «Per quanto vecchio e gottoso egli sia.»
«Se farai ritorno a Lancia del Sole, dovrai dare udienza alla principessa Myrcella» disse Caleotte. «Il Cavaliere Bianco sarà al suo fianco… e, come sai, quell’uomo manda messaggi alla regina Cersei.»
«Immagino che lo faccia.»
Il Cavaliere Bianco. Il capitano corrugò la fronte. Ser Arys Oakheart, membro della celebre Guardia reale, era venuto a Dorne per vegliare sulla principessa Myrcella Baratheon, così come un tempo Areo Hotah era venuto per lui. Perfino i loro nomi si assomigliavano: Areo e Arys. Ma la somiglianza si fermava lì. Il capitano aveva lasciato Norvos e i suoi preti barbuti, invece ser Arys continuava a servire il Trono di Spade. Hotah sentiva una sorta di tristezza ogni volta che vedeva quell’uomo avvolto nella lunga cappa color neve, quando il principe Doran lo inviava a Lancia del Sole. Aveva il presentimento che un giorno lui e ser Arys si sarebbero affrontati in duello. E quel giorno Oakheart sarebbe morto, con la sua ascia lunga conficcata nel cranio. Hotah fece scivolare la mano sulla lunga impugnatura color cenere della sua arma, domandandosi se quel giorno non fosse ormai vicino.
«Il pomeriggio volge al termine» stava dicendo il principe. «Aspetteremo il mattino. Che la mia carrozza sia pronta alle prime luci dell’alba.»
«Come comandi.» Caleotte si inchinò. Il capitano si fece da parte per lasciarlo passare, ascoltò l’eco dei suoi passi che si affievoliva.
«Capitano?» La voce del principe era sommessa.
Hotah si fece avanti, la mano serrata attorno all’ascia lunga. Contro la sua palma, il legno di leccio era liscio come la pelle di una donna. Quando fu vicino alla sedia a ruote, batté l’asta sul pavimento annunciando la propria presenza, ma il principe aveva occhi solo per i bambini che giocavano nell’acqua.
«Tu avevi fratelli a Norvos, quando eri giovane?» gli chiese. «Oppure sorelle?»
«Gli uni e le altre» rispose Hotah. «Due fratelli, tre sorelle. Io ero il più giovane.»
Il più giovane e il meno voluto. Un’altra bocca da nutrire, un ragazzo grande e grosso che mangiava tanto e cresceva troppo in fretta per i vestiti. Nessuna meraviglia che lo avessero venduto ai preti barbuti.
«Io ero il primo» disse il principe «eppure sono l’ultimo rimasto. Dopo che Mors e Olyvar morirono nella culla, abbandonai la speranza di avere fratelli. Avevo nove anni quando nacque Elia, ero paggio al servizio della Costa del Sale. Quando arrivò il corvo con il messaggio che mia madre aveva partorito un mese in anticipo, ero abbastanza grande da capire che non ce l’avrebbe fatta. Perfino dopo che lord Gargalen mi disse che avevo avuto una sorella, io insistetti che sarebbe morta in breve tempo. Invece, grazie alla misericordia della Madre, Elia visse. E un anno dopo, scalciando e strillando, arrivò Oberyn. Ero un uomo fatto quando loro due giocavano in questi stessi stagni. Ora, io sono ancora qui, mentre loro non ci sono più.»
Areo Hotah non sapeva cosa dire. Era solamente un capitano delle guardie, e anche dopo tutti quegli anni si sentiva ancora straniero a quella terra e ai suoi Sette Dèi. Servire. Obbedire. Proteggere. Aveva prestato quel giuramento all’età di sedici anni, il giorno in cui aveva sposato la sua ascia. Parole semplici per uomini semplici, avevano detto i preti barbuti. Non era stato istruito per dare consiglio a principi in lutto.