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Era ancora alla ricerca di parole che non riusciva a trovare, quando un’altra arancia cadde con un tonfo sordo a non più di un passo da dove era seduto il principe. Doran strinse le palpebre al rumore, quasi gli provocasse sofferenza. «Basta» sospirò. «Lasciami solo, Areo. Lasciami a guardare i bambini per qualche ora.»

Dopo il tramonto, mentre l’aria si faceva più fredda e i bambini rientravano per la cena, il principe rimase ancora sotto gli alberi di arancio, a guardare l’acqua immobile degli stagni e il mare al di là. Un servitore gli portò una coppa di olive viola, del pane, formaggio e crema di piselli.

Doran mangiò un po’ e bevve un calice del dolce, pesante nerovino che tanto amava. Quando l’ebbe svuotato, lo riempì di nuovo. A un certo punto, nelle prime ore buie e profonde del mattino, il sonno lo colse sul suo scanno. Solo allora il capitano lo spinse lungo la galleria illuminata dalla luna, oltre una fila di colonne a spirale e un arco aggraziato, fino alla stanza sul mare e al grande letto con fresche lenzuola di lino. Doran gemette quando il capitano lo adagiò sul letto, ma gli dèi furono generosi e non si svegliò.

L’alloggio del capitano era accanto alla stanza del principe. Hotah sedette sullo stretto giaciglio. Nella nicchia, trovò la pietra per affilare e il drappo oleato, e si mise al lavoro. "Tieni la tua ascia sempre affilata" gli avevano detto i preti barbuti, il giorno in cui lo avevano marchiato. E così aveva sempre fatto.

Mentre affilava l’ascia, Hotah ripensò a Norvos, la città alta sulle colline e quella bassa a fianco del fiume. Poteva ancora udire il suono delle tre campane, i profondi rintocchi di Noom che gli facevano vibrare le ossa, la voce orgogliosa e forte di Narrah, la dolce risata argentea di Nyel. Sentì in bocca il gusto della torta d’inverno, ricco di zenzero, di pinoli e di pezzetti di ciliegia, e quello del nasha, il latte di capra fermentato servito in una tazza di ferro e addolcito con miele, che si beveva per mandarla giù meglio. Rivide sua madre, vestita con l’abito dal colletto di pelo di scoiattolo: lo indossava una sola volta l’anno, quando andavano a vedere le danze degli orsi in fondo alla Scalinata dei Peccatori. E sentì di nuovo l’odore di peli bruciati quando il prete barbuto gli aveva appoggiato il marchio rovente al centro del petto. Il dolore era stato talmente forte da fargli pensare che il cuore gli si sarebbe fermato, ma Areo Hotah non aveva battuto ciglio. I peli non erano mai più ricresciuti sopra il simbolo dell’ascia impresso nella sua carne.

Quando entrambi i tagli della bipenne furono affilati come rasoi, il capitano posò sul letto la sua sposa di legno e acciaio. Sbadigliando, Areo Hotah si tolse di dosso gli abiti sporchi, li lasciò cadere sul pavimento e si sdraiò sul pagliericcio. Ripensare al marchio gli aveva provocato il prurito, per cui Hotah si grattò prima di chiudere gli occhi. "Avrei dovuto raccogliere le arance cadute" pensò. Poi scivolò nel sonno pensando al loro gusto, a un tempo dolce e asprigno, alla sensazione appiccicosa del loro succo rossastro sulle dita.

L’alba arrivò troppo presto. Fuori delle stalle, il più piccolo dei tre cavalli da tiro era pronto, aggiogato alla carrozza di legno di cedro con le tendine di seta rossa. Tra i trenta lancieri di guardia ai Giardini dell’Acqua, il capitano ne scelse venti per la scorta. Gli altri sarebbero rimasti a proteggere i giardini e i bambini, alcuni dei quali erano figli di grandi lord e di ricchi mercanti.

Per quanto il principe avesse parlato di partire alle prime luci dell’alba, Areo Hotah sapeva che non sarebbe andata a quel modo. Mentre il maestro aiutava Doran Martell a farsi il bagno e fasciava le sue articolazioni gonfie con bende di lino imbevute di lozioni calmanti, il capitano indossò la cotta di maglia a scaglie di rame, simbolo del suo grado, e sopra mise un ampio mantello di seta cruda grigia e gialla per tenere il rame al riparo dal sole. La giornata si preannunciava torrida e da lungo tempo il capitano aveva rinunciato alla pesante cappa di crine di cavallo e alla giubba di cuoio borchiato che indossava a Norvos, indumenti che nel clima di Dorne avrebbero arrostito chiunque. Aveva conservato il mezzo elmo di ferro, munito di cresta di rostri affilati, ma lo teneva avvolto in una seta arancione, che passava attorno ai rostri. Altrimenti la ferocia del sole sul metallo gli avrebbe fatto cuocere la testa ben prima di arrivare in vista del palazzo.

Il principe non era ancora pronto. Aveva deciso di fare colazione prima di mettersi in viaggio, con una sanguinella e un piatto di uova di gabbiano in insalata con prosciutto e peperoni piccanti. Dopo di che avrebbe salutato alcuni bambini che erano diventati i suoi preferiti: il figlio dei Dalt e quello di lady Blackmont e la ragazzina orfana con il viso rotondo il cui padre vendeva tessuti e spezie lungo il fiume Sangue Verde. Doran tenne sulle gambe una splendida coperta della città libera di Myr, per risparmiare ai piccoli la vista delle sue ginocchia gonfie e fasciate.

Era mezzogiorno quando finalmente si misero in cammino: il principe nella sua carrozza, maestro Caleotte a dorso di mulo, la scorta a piedi. Cinque lancieri davanti, cinque dietro, altri cinque per parte ai fianchi della vettura. Areo Hotah si mise come al solito alla sinistra del principe, con l’ascia lunga appoggiata alla spalla durante la marcia. La strada che da Lancia del Sole portava ai Giardini dell’Acqua costeggiava il mare, per cui erano rinfrescati da una piacevole brezza mentre avanzavano attraverso l’aspro territorio dalle tonalità marroni e rossastre, disseminato di rocce, sabbia e bassi alberi contorti.

A metà strada, li raggiunse la seconda Serpe delle Sabbie.

Apparve all’improvviso sulla sommità di una duna, in sella a un magnifico purosangue dorato del deserto, con una criniera che pareva di candida seta. Perfino a cavallo, lady Nym appariva aggraziata, avvolta in svolazzanti tuniche lilla e con un’ampia cappa di seta cruda intessuta di rame che si sollevava a ogni alito di vento, dando l’impressione che lei stesse per spiccare il volo. Nymeria Sand aveva venticinque anni ed era esile come un salice. L’attaccatura dei suoi capelli neri e lisci, raccolti in una lunga treccia legata da un filo di oro rosso, disegnava una punta di lancia sopra gli occhi scuri, identici a quelli del padre. Zigomi alti, labbra piene e carnagione bianca come la neve, Nymeria possedeva tutta l’avvenenza che mancava alla sorella maggiore… ma la madre di Obara era stata una puttana di Vecchia Città, mentre Nymeria discendeva dal più nobile sangue della città libera di Volantis. Dietro di lei, una dozzina di lancieri a cavallo, con gli scudi rotondi scintillanti al sole, seguirono Nymeria nella discesa della duna.

Il principe Doran aveva tirato le tendine per ricevere la brezza proveniente dal mare. Lady Nymeria affiancò la carrozza, trattenendo al passo lo splendido purosangue dorato.

«Ben trovato, zio» cinguettò, quasi fosse arrivata lì per caso. «Posso cavalcare con te fino a Lancia del Sole?»

Il capitano si trovava dalla parte opposta della carrozza, ma poteva udire ogni parola pronunciata da Nymeria.

«Ne sarò lieto» rispose il principe Doran, per quanto, alle orecchie del capitano, non lo sembrasse affatto. «Gotta e lutto sono tristi compagni di viaggio.»

Allora il capitano capì che ogni ciottolo del sentiero era come una punta conficcata nelle giunture doloranti del principe.

«Nulla posso contro la gotta» disse Nym «ma di certo mio padre non amava il lutto. Gli era molto più congeniale la vendetta. È vero che Gregor Clegane ha ammesso di aver assassinato Elia e i suoi figli?»

«Ha gridato la sua colpevolezza di fronte all’intera corte di Approdo del Re» ammise il principe Doran. «Lord Tywin ci ha promesso la sua testa.»