Dopo pochi minuti raggiunse uno dei tanti alberi che spuntavano dalla stessa roccia. Sotto i suoi rami grigi e attorcigliati, e le sue foglie scure e verdi, si trovavano dei gusci di noce rotti e vuoti, e i torsoli di molti frutti. Erano tracce fresche. Qualcuno si era fermato a mangiare, da poco tempo. La vista gli rinnovò le forze. Inoltre, nei gusci di noce era rimasta polpa sufficiente a soddisfare, seppure parzialmente, i morsi del suo stomaco. I resti dei frutti gli diedero qualcosa per alleviare la sua sete bruciante.
Per sei giorni salì, e per sei notti riposò. C’era vita sulla faccia del dirupo, piccoli alberi e bassi cespugli crescevano sulla roccia, dalle caverne, e dai crepacci. Abbondavano uccelli di ogni genere, e molti piccoli animali. Questi si nutrivano di noci e bacche o dei loro simili. Lui uccise con dei sassi degli uccelli, e ne mangiò la carne cruda. Trovò della selce, e con essa si costruì un coltello rozzo ma efficiente. Con esso, intagliò un ramo di legno e, aggiungendo un’altra selce, fabbricò una lancia. Dimagrì e si irrobustì e le mani, i piedi e le ginocchia si coprirono di callosità. La barba gli si allungò.
Il mattino del settimo giorno, si sporse da uno sperone di roccia e giudicò di trovarsi a circa quattromila metri sul mare. Eppure, l’aria non era né più fresca né più rarefatta di quanto non fosse stata all’inizio della scalata. Il mare, che doveva essere largo almeno trecento chilometri, sembrava un grande fiume. Più oltre, si trovava la fascia ai margini del mondo, il Giardino dal quale era partito alla ricerca di Chryseis e dei gworl. Era stretto come il baffo di un gatto. Più oltre, c’era soltanto il cielo verde.
A mezzogiorno dell’ottavo giorno, si imbatté in un serpente che mangiava i resti di un gworl morto. Il serpente era lungo dodici metri, coperto di punti neri e di scarlatti sigilli di Salomone. I piedi che uscivano da entrambi i fianchi, uscivano direttamente dal corpo, senza gambe, ed erano spaventosamente umani. Le fauci avevano una chiostra di denti aguzzi, da squalo.
Wolff lo attaccò direttamente, perché aveva visto che dal centro del suo corpo usciva il manico di un coltello, e che dalla ferita usciva del sangue fresco. Il serpente sibilò, si srotolò, e cominciò a ritirarsi. Wolff lo colpì più volte, e il serpente cercò di morderlo, sibilando. Wolff infilò la punta di selce in uno dei grandi occhi verdastri. Il serpente sibilò ferocemente e si ritrasse, scalciando con le sue due dozzine di piedi con cinque dita. Wolff ritirò la lancia dall’occhio sanguinante, e la immerse nella zona bianca, sotto le fauci del rettile. La lancia si immerse in profondità; il serpente si contorse così violentemente, che la lancia fu strappata di mano a Wolff. Ma la creatura cadde sul fianco, soffiò rumorosamente, e dopo qualche istante morì.
Si udì un grido sopra di lui, seguito da un’ombra. Wolff aveva già udito quel grido, quando si era trovato sul pesce-barca. Si tuffò di lato, e rotolò su se stesso. Raggiunse una fessura nella roccia, vi penetrò, e si voltò a guardare la minaccia. Si trattava di una delle enormi aquile dalle immense ali, dal corpo verde, la testa rossa e il becco giallo. Si era posata sul serpente, e ne lacerava il corpo col rostro, aguzzo come i denti del rettile. Tra un boccone e l’altro, guardava ferocemente Wolff, il quale cercava di immergersi ancora di più nella fessura.
Wolff fu costretto a restare nel crepaccio fino a quando l’uccello non ebbe terminato il suo pasto. Dato che ci volle tutto il giorno, e l’aquila non era intenzionata ad abbandonare i due cadaveri, quella notte, Wolff divenne affamato, assetato e stanco. Al mattino, cominciava a diventare furibondo. L’aquila era appollaiata accanto ai due cadaveri, con le ali chiuse e il capo ciondoloni. Wolff decise che, se stava dormendo, era giunto il momento di tentare la sortita. Uscì dal crepaccio, e il dolore ai muscoli irrigiditi lo fece quasi svenire. Mentre faceva questo, l’aquila sollevò il capo di scatto, aprì le ali, e gridò. Wolff batté in ritirata nel crepaccio.
A mezzogiorno, l’aquila mostrava di non avere ancora nessuna intenzione di andarsene. Mangiò poco, e sembrò assetata. Il sole batteva sull’uccello e sulle due carcasse. Puzzavano tutti e tre. Wolff cominciò a disperare. Per quanto ne sapeva, l’aquila poteva restare finché non avesse divorato fino alle ossa gworl e rettile. E allora, lui, Wolff, sarebbe stato distrutto dalla fame e dalla sete.
Lasciò la fessura e raccolse la lancia. Era caduta quando l’uccello aveva divorato la carne intorno a essa. La agitò minacciosamente verso l’aquila, che lo guardò ferocemente, soffiò, e gridò. Wolff gridò a sua volta, e lentamente, a ritroso, si allontanò dall’uccello. Esso avanzava a piccoli passi, dondolando leggermente. Wolff si fermò, gridò di nuovo, e balzò verso l’aquila. Sorpresa, la bestia balzò indietro e gridò a sua volta.
Wolff ricominciò la sua lenta ritirata, ma questa volta l’aquila non lo seguì. Solo quando la curva della montagna sottrasse il rapace al suo sguardo, Wolff riprese l’ascensione. Si assicurò che ci fosse sempre un rifugio disponibile a portata di mano, nel caso l’uccello avesse deciso di inseguirlo. In ogni modo, nessuna ombra calò su di lui. A quanto sembrava, l’aquila aveva voluto soltanto proteggere il suo cibo.
Il mattino del giorno seguente trovò un altro gworl. Questo aveva una gamba rotta e sedeva con la schiena appoggiata al tronco di un albero basso. Brandiva un coltello e una dozzina di animali rossi e furiosi, simili a maiali, ma con zoccoli caprini, lo attaccavano. Andavano avanti e indietro, davanti al gworl ferito, e grugnivano. A intervalli, uno di loro caricava, ma si fermava a pochi passi dal coltello.
Wolff salì su un macigno, e cominciò a lanciare dei sassi ai carnivori. Dopo un minuto, si pentì di avere attirato l’attenzione su di sé. Le bestie si arrampicarono sul macigno levigato, come se ci fossero stati degli scalini. Lavorando abilmente di lancia, riuscì a respingerli. La punta di selce penetrava nella loro pelle cuoiosa leggermente, non tanto da ferirli gravemente.
Squittendo, caddero sullo spiazzo sottostante, e dopo un attimo tornarono alla carica. Le loro mascelle si chiusero a pochi centimetri di distanza da lui; un paio di animali quasi lo raggiunsero. Era impegnato a tenerli a distanza, quando a un certo momento si trovarono tutti sull’esiguo spiazzo sotto il macigno, insieme. Lasciò la lancia e raccolse una grossa roccia, e la gettò contro uno degli animali. L’animale gridò e cercò di fuggire, servendosi delle zampe anteriori, ancora sane. L’orda fu sulle gambe posteriori paralizzate, e cominciò a divorarle. Quando l’animale ferito si voltò per difendersi, fu azzannato alla gola. Dopo un istante, era morto, e gli altri lo stavano divorando.
Wolff tirò su la lancia, discese dall’altro lato della roccia, e si avvicinò al gworl. Tenne d’occhio i carnivori, ma questi lo degnarono soltanto di uno sguardo, e poi ripresero voracemente a disputarsi la carcassa.
Il gworl grugnì e tenne pronto il coltello. Wolff si fermò a distanza di sicurezza, in modo da potersi ritrarre se il coltello fosse stato lanciato. Dalla gamba spappolata del gworl usciva addirittura qualche frammento osseo. Gli occhi del gworl, affondati tra i cuscinetti cartilaginei della fronte bassa, avevano un’espressione vacua.
Wolff ebbe una reazione inattesa. Aveva pensato di uccidere selvaggiamente e senza indugio ogni gworl che gli fosse venuto a tiro. Ma ora desiderava parlargli. Si era sentito così solo, in quei giorni e in quelle notti di ascesa, che provava il desiderio di parlare a qualcuno, perfino a quella creatura repellente.
Disse, in greco:
«Posso fare qualcosa per te?»
Il gworl pronunciò qualcosa, nella sua lingua gorgogliante, e sollevò il coltello. Wolff si avviò verso di lui, poi balzò di lato quando il coltello fu lanciato, e gli passò sibilando accanto. Raccolse il coltello, poi si avviò nuovamente verso il gworl, e gli parlò ancora. La cosa gorgogliò, ma in tono più debole. Wolff, chinandosi su di lui per ripetere la domanda, fu colpito da un fiotto di saliva in pieno volto.