Questo risvegliò tutto il suo odio e tutta la sua paura. Affondò il coltello nel grosso collo; il gworl scalciò violentemente a più riprese, e morì. Wolff pulì il coltello sul pelo nero e frugò nella borsa di cuoio appesa alla cintura del gworl. Conteneva carne essiccata, frutta essiccata, un po’ di pane nero e duro, e una borraccia con un liquore fortissimo. Wolff aveva dubbi seri sulla provenienza della carne, ma si disse che aveva troppa fame per essere schizzinoso. Mordere il pane fu una vera e propria esperienza; era duro quasi come la pietra ma, una volta ammollito dalla saliva, era accettabile.
Wolff continuò a salire. Passarono i giorni e le notti senza altro segno dei gworl. L’aria era calda e densa come su! livello del mare, eppure, secondo una sua stima approssimativa, doveva trovarsi a diecimila metri di altezza. Il mare sotto di lui era un sottile anello d’argento intorno al mondo.
Quella notte si svegliò sentendo sul suo corpo dozzine di piccole mani pelose. Si dibatté, e scoprì che le mani erano troppo forti. Lo tenevano fermo mentre altre mani gli legavano insieme piedi e mani con una corda ruvida. Dopo qualche tempo, fu issato in alto e portato davanti alla lastra di pietra che fronteggiava l’ingresso della caverna nella quale aveva trovato asilo per la notte. La luce della luna gli mostrò una moltitudine di piccoli bipedi, alti ognuno settanta centimetri. Erano coperti da un pelo grigio, come quello dei topi, ma con un collarino bianco. I volti erano neri e sgradevoli e simili a quelli dei pipistrelli. Avevano orecchie enormi e appuntite.
Silenziosamente, lo trasportarono sul lastrone, e all’interno di un nuovo crepaccio. Questo conduceva in una grande caverna, ampia circa dieci metri e alta sei. La luce lunare filtrava da una crepa della volta, e mostrava quello che il suo olfatto aveva già scoperto, una pila di ossa alle quali erano rimasti attaccati solo dei brandelli di carne imputridita. Fu lasciato vicino alle ossa, mentre i suoi catturatori si ritiravano in un angolo della caverna. Cominciarono a parlare, o meglio, a squittire tra loro. Uno si avvicinò a Wolff, lo guardò un momento, e si adagiò al suolo all’altezza della gola di Wolff. Dopo un istante, stava mordendo la gola con denti sottili ma aguzzi. Degli altri lo seguirono; dei denti cominciarono a immergersi in tutto il suo corpo.
Venne fatto tutto in un silenzio mortale, nel senso letterale della parola. Neppure Wolff fece rumore, all’infuori del respiro affannoso, provocato dai suoi tentativi di opporsi alla macabra operazione. Il dolore acuto provocato dai morsi svanì immediatamente, come se un anestetico fosse stato iniettato nel suo corpo.
Cominciò a sentirsi la gola secca. Si sentì sonnolento. Contro la sua volontà, smise di combattere. Una piacevole sonnolenza si impadroni del suo corpo. Non gli sembrava conveniente lottare per la propria vita; perché non morire in modo piacevole? Per lo meno, la sua morte non sarebbe stata inutile. C’era qualcosa di nobile nel dare il suo corpo in dono a quelle piccole creature, in modo che esse potessero riempire i loro ventri e sentirsi ben nutrite e soddisfatte per qualche giorno.
Una luce penetrò nella caverna. Tra le ondate di sonnolenza, vide i musi di pipistrello allontanarsi da lui e correre all’estremità opposta della caverna, ammucchiandosi l’uno sull’altro. La luce divenne più forte, ed essa si sprigionava da una torcia fiammeggiante e odorosa di resina. Il volto di un vecchio seguì la luce, e si chinò su di lui. Aveva una lunga barba bianca, una bocca piccola e sgradevole. un naso aguzzo e ricurvo, ed enormi sopracciglia. Il suo corpo decrepito era ricoperto da un abito bianco, sporchissimo. La sua mano, solcata da grosse vene bluastre impugnava un bastone, sulla cui impugnatura c’era uno zaffiro, grosso come il pugno di Wolff, tagliato a forma di arpia.
Wolff cercò di parlare, ma riuscì a farfugliare solo poche frasi senza senso, come se fosse appena uscito dall’anestesia, dopo un intervento in sala operatoria. Il vecchio fece un gesto col bastone, e diversi musi di pipistrello si distaccarono dalla massa dei loro simili. Si avvicinarono, fissando con sguardo pieno di paura il vecchio. Rapidamente, slegarono Wolff. Lui riuscì ad alzarsi in piedi, ma era così debole che il vecchio dovette aiutarlo a uscire dalla caverna.
Il vecchio lo apostrofò in greco miceneo:
«Ti sentirai meglio subito. Il veleno non dura per molto.»
«Chi sei? Dove mi porti?»
«Fuori da questo pericolo» rispose il vecchio. Wolff meditò sull’enigmatica risposta. Quando la sua mente e il suo corpo tornarono a funzionare normalmente, erano giunti all’ingresso di un’altra caverna. Attraversarono una serie di grotte che li portavano gradualmente in alto. Quando ebbero percorso circa tre chilometri, il vecchio si fermò davanti a una caverna con una grande porta di acciaio. Diede la torcia a Wolff, aprì la porta, e gli fece segno di entrare. Wolff entrò in una grande caverna, illuminata da diverse torce. La porta si chiuse con fragore dietro di lui, e si udì subito dopo il rumore di un chiavistello che si chiudeva.
La prima cosa che colpì Wolff fu l’odore di chiuso. La seconda, furono le due aquile verdi dalla testa rossa che gli arrivarono subito addosso. Una parlò con la voce di un pappagallo gigante, ordinandogli di andare avanti. Lui eseguì, rendendosi conto in quel momento che i musi di pipistrello dovevano avergli preso il coltello. L’arma, certamente, non gli sarebbe servita a molto. La caverna era piena di uccelli, e ognuno torreggiava su di lui.
Contro una parete c’erano due gabbie fatte di sottili sbarre di ferro. In una, si trovava un gruppo di sei gworl. Nell’altra c’era un giovane alto e prestante, che indossava dei pantaloni di pelle d’antilope. Sorrise a Wolff, e disse:
«Così, ce l’hai fatta! Come sei cambiato!»
Solo allora i capelli rosso-bronzo, le labbra decise, e il volto irregolare e ilare gli furono familiari. Wolff riconobbe l’uomo che gli aveva lanciato il corno dal macigno, assediato dai gworl, e che diceva di chiamarsi Kickaha.
CAPITOLO VI
Wolff non ebbe il tempo di rispondere, perché la porta della gabbia fu aperta da un’aquila, che si serviva della zampa con la stessa disinvoltura di una mano. Una testa possente e un becco affilato lo spinsero nella gabbia; la porta si chiuse dietro di lui.
«E così, eccoti qui» disse Kickaha, con voce baritonale. «La domanda è questa: che facciamo, adesso? Il nostro soggiorno può essere breve e spiacevole.»
Wolff, guardando attraverso le sbarre, vide un trono scolpito nella roccia, e su di esso una donna. Anzi, una donna a metà, perché invece di braccia ella aveva delle ali, e la parte inferiore del suo corpo era quella di un uccello. Le gambe, comunque, erano molto più grosse, in proporzione, di quelle delle aquile terrestri. Dovevano sostenere un peso maggiore. Wolff trasse subito le sue conclusioni, e capì che si trattava di un altro dei mostri prodotti in laboratorio dal Signore. Doveva trattarsi di quella Podarge della quale aveva parlato Ipsewas.
Dalla cintola in su, era una donna quale pochi uomini hanno mai avuto la fortuna di vedere. La sua pelle era bianca come l’opale più lattescente, i seni superbi, il collo un altare alla bellezza. I capelli erano lunghi e neri e lisci e scendevano a incorniciare un volto che era anche più bello di quello di Chryseis, un’ammissione che Wolff aveva pensato fosse impossibile strappargli.
Comunque, c’era qualcosa di orribile in quella bellezza; una ventata di pazzia. Gli occhi fiammeggiavano come quelli di un falco ridotto alla disperazione più nera.
Wolff distolse gli occhi da quelli della creatura, e perlustrò con lo sguardo la caverna.
«Dov’è Chryseis?» mormorò.
«Chi?» rispose nello stesso tono Kickaha.