Con poche frasi appropriate, Wolff la descrisse e gli spiegò quanto gli era accaduto.
Kickaha scosse il capo.
«Non l’ho mai vista.»
«Ma i gworl?»
«Ce n’erano due gruppi. L’altro deve essere in possesso del corno… e di Chryseis. Non preoccuparti di loro. Se non riusciamo a trovare qualche spiegazione brillante per uscire di qui, siamo finiti. E in un modo piuttosto orribile.»
Wolff chiese notizie sul vecchio. Kickaha rispose che, un tempo, era stato l’amante di Podarge. Era un aborigeno, uno di coloro che erano stati portati in questo universo subito dopo che il Signore aveva terminato di fabbricarlo. L’arpia ora lo teneva per eseguire i lavori più vili, che richiedevano mani umane. Il vecchio era andato a salvare Wolff per ordine di Podarge, senza dubbio perché l’arpia aveva avuto da lungo tempo notizia della presenza di Wolff nel suo regno, dalle sue protette.
Podarge si muoveva incessantemente sul suo trono, e ripiegava e spiegava le ali.
«Voi due laggiù!» gridò. «Smettete di mormorare! Kickaha, cos’altro hai da dire in tuo favore, prima che dia via libera alle mie aquile?»
«Posso soltanto ripetere, col rischio di diventare monotono, quello che ho detto prima!» rispose ad alta voce Kickaha. «Sono un nemico del Signore, almeno quanto te, e lui mi odia, e mi ucciderebbe, se potesse! Sa che gli ho rubato il corno e che rappresento un pericolo per lui. I suoi Occhi perlustrano i quattro piani del mondo e salgono e scendono dalla montagna per cercarmi. E…»
«Dov’è questo corno che hai detto di avere rubato al Signore? Perché adesso non l’hai con te? Credo che tu menta, per salvare la tua indegna carcassa!»
«Ti ho detto che ho aperto un varco con l’altro mondo, e che ho gettato il corno a un uomo che è apparso al di là del varco. Adesso, si trova davanti a te.»
Podarge girò il capo con una mossa più da aquila che da donna, e fissò Wolff.
«Non vedo nessun corno. Vedo un po’ di carne dura e decrepita dietro a una barba nera!»
«Mi ha detto che un’altra banda di gworl glielo ha rubato» replicò Kickaha. «Li stava inseguendo, per riaverlo, quando i musi di pipistrello lo hanno catturato e tu lo hai salvato con tanta magnanimità. Liberaci, graziosa e bella Podarge, e noi ritroveremo il corno. Con esso, potremo combattere il Signore. Egli può essere sconfitto! Può essere il possente Signore, ma non è onnipotente! Se lo fosse, avrebbe trovato da molto tempo noi e il corno!»
Podarge si alzò, aprì le ali, le richiuse, e scese gli scalini del trono, avvicinandosi alla gabbia. Camminando, non dondolava come un uccello, ma avanzava rigidamente.
«Vorrei poterti credere» disse con voce più bassa, ma altrettanto intensa. «Se solo lo potessi! Ho aspettato per anni e per secoli e per millenni, oh, tanto che il mio cuore soffre al solo ricordo del tempo! Se credessi che l’arma per restituirgli il colpo fosse veramente giunta nelle mie mani…»
Lei li fissò, aprì le ali, e disse:
«Guardate! «Le mie mani», ho detto. Ma non ho mani, né il corpo che un tempo fu mio. Quel…» Ed esplose in un’invettiva così furibonda e selvaggia, che Wolff fu costretto suo malgrado a tremare. Non furono le parole ma la furia, che poteva essere soltanto folle o divina, che lo fecero gelare.
«Se il Signore può essere rovesciato… e credo che sia possibile farlo… ti sarà restituito il tuo corpo umano» disse Kickaha, quando lei ebbe terminato.
Lei ansimò, soffocata da un impeto d’ira, e li guardò con evidente brama di sangue. Wolff pensò che tutto fosse perduto, ma si rese conto dalle parole di lei che la furia incredibile non era per loro.
«Il vecchio Signore se ne è andato da molto tempo, così dicono le voci. Ho mandato una delle mie dilette a indagare, e lei è ritornata con una strana storia. Mi ha detto che c’è un nuovo Signore, ma che lei non sapeva se si trattava o no dello stesso in un nuovo corpo. L’ho mandata nuovamente dal Signore, che ha rifiutato la mia supplica di restituirmi il corpo che fu mio. Così non importa che ci sia o no un nuovo Signore. È maligno e crudele come il vecchio, se non è veramente lui. Ma devo sapere!
«Per prima cosa, chiunque sia, il Signore deve morire. Poi, scoprirò se era in un nuovo corpo, o no. Se il vecchio Signore ha lasciato questo universo, lo inseguirò per tutti i mondi, e lo troverò!»
«Non puoi fare questo senza il corno» disse Kickaha. «Esso ed esso soltanto apre il passaggio senza un apparecchio collegato nell’altro mondo!»
«Cosa ho da perdere?» domandò Podarge. «Se menti e mi tradisci, alla fine ti avrò, e la caccia potrebbe essere divertente. Se dici il vero, allora vedremo quello che potrà succedere.»
Parlò all’aquila che si trovava accanto a lei, ed essa aprì la gabbia. Kickaha e Wolff seguirono l’arpia per la caverna, fino a un grande tavolo con delle sedie intorno. Soltanto allora Wolff si rese conto che la caverna era una stanza del tesoro; bottino di valore inestimabile, il bottino di un mondo, era ammucchiato ovunque. C’erano delle grosse ceste piene di gioielli splendenti, collane di perle, e recipienti d’oro e d’argento di squisita fattura. C’erano miniature d’avorio e di uno strano legno nero e lucido. C’erano quadri stupendi. Armature e armi di ogni sorta, tranne che armi da fuoco, erano ammucchiate disordinatamente in ogni angolo.
Podarge ordinò loro di sedersi su delle sedie elaborate e artistiche, coi braccioli che terminavano con delle zampe di leone. Fece segno con un’ala, e dall’ombra uscì un giovanotto umano. Portava un vassoio d’oro finemente cesellato, sul quale c’erano tre tazze di cristallo di squisita fattura. Erano state fatte a guisa di pesci guizzanti dalle bocche spalancate; le bocche erano piene di un saporito vino rosso.
«Uno dei suoi amanti» mormorò Kickaha, rispondendo alla muta domanda di Wolff, che fissava il bel giovane biondo. «Portato dalle sue aquile dal piano conosciuto come Drachelandia, o Teutonia. Povero ragazzo! Ma è meglio che essere mangiato vivo dalle sue pupille, e ha sempre la speranza di fuggire.»
Kickaha bevve, ed emise un rumoroso sospiro di soddisfazione, mentre il vino gli scaldava il corpo. Wolff sentì che il vino si muoveva nel suo corpo, come se fosse stato vivo. Podarge prese la tazza tra le punte delle ali, e la sollevò alle labbra.
«Alla morte e dannazione del Signore! Di conseguenza, al vostro successo!»
I due bevvero di nuovo. Podarge posò la tazza sul tavolo, e carezzò lievemente Wolff con la punta dell’ala.
«Raccontami la tua storia.»
Wolff parlò a lungo. Mangiò fette di carne arrostita di maiale-capra, pane bianco, e frutta, e bevve il vino. La testa cominciò a girargli, ma continuò a parlare, interrompendosi solo quando Podarge gli faceva una domanda su qualche particolare. Delle nuove torce sostituirono quelle di prima, ed egli continuò a parlare.
Bruscamente, si svegliò. Il sole penetrava coi suoi raggi da un’altra caverna, illuminando la tazza vuota e il tavolo sul quale aveva posato il capo, dormendo. Kickaha, sorridente, era in piedi accanto a lui.
«Andiamo» disse lui. «Podarge vuole che partiamo presto. È ansiosa di vendetta. E io voglio andarmene, prima che cambi idea. Non sai quanto siamo fortunati. Siamo i soli prigionieri ai quali ella abbia concesso la libertà.»
Wolff si sollevò, e mugolò per il dolore alle spalle e al collo. Aveva la testa confusa e pesante, ma aveva avuto dei postumi da sbronza ben peggiori.
«Cosa hai fatto, dopo che io mi sono addormentato?» domandò lui.
Kickaha sorrise allegramente.
«Ho pagato il prezzo finale. Ma non è stato male, no, niente male. Piuttosto strano, dapprima, ma io sono un tipo adattabile.»
Uscirono dalla caverna per entrare in quella contigua, e di là uscirono sull’ampia lingua di pietra che dava sul fianco della montagna. Wolff si voltò a dare un’ultima occhiata, e vide diverse aquile, statue verdi, immobili davanti all’ingresso della caverna interna. Si vide un lampo di pelle candida e di ali nere, quando Podarge passò rigidamente davanti ai giganteschi uccelli.