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«Andiamo» disse Kickaha. «Podarge e le sue dilette hanno fame. Non hai visto, quando lei ha cercato di fare in modo che i gworl supplicassero misericordia. Devo dire una cosa a loro favore, non si sono lamentati, e non hanno gridato. Le hanno sputato addosso.»

Wolff sobbalzò, quando un urlo spaventoso si levò dalla caverna. Kickaha afferrò il braccio di Wolff, e lo costrinse ad affrettarsi. Molte altre grida allucinanti uscirono dai becchi delle aquile, mescolate agli ululati di esseri in preda alla paura e al dolore della morte.

«Avrebbe potuto toccare a noi» disse Kickaha. «Se non avessimo avuto qualcosa da dare in cambio, per le nostre vite.»

Cominciarono ad arrampicarsi e quando cadde la notte si trovarono mille metri più in alto. Kickaha aprì la borsa di cuoio che portava alla cintura, e ne trasse diversi articoli. Tra essi c’era una scatola di fiammiferi, con uno dei quali accese un falò. Carne e pane e una piccola bottiglia di vino rosso. La sacca, e il suo contenuto, erano un dono di Podarge.

«Dobbiamo arrampicarci per altri quattro giorni, prima di giungere al prossimo piano» disse il giovane. «Poi, troveremo il mondo favoloso di Amerindia.»

Wolff cominciò a formulare delle domande, ma Kickaha disse che prima doveva spiegargli la struttura fisica del pianeta. Wolff ascoltò pazientemente, e una volta udite le spiegazioni di Kickaha, non se ne pentì. Inoltre, la spiegazione di Kickaha corrispondeva a quanto aveva visto finora. L’intenzione di Wolff, di domandare a Kickaha come lui, evidentemente nativo della Terra, fosse arrivato laggiù, finì nel nulla. Il giovane, lamentandosi di non avere dormito per troppo tempo e di avere passato una notte particolarmente sfibrante, si addormentò.

Wolff fissò per qualche tempo le fiamme del fuoco morente. Aveva visto e subito troppo in troppo poco tempo, ma aveva da affrontare molte altre prove. Questo sarebbe accaduto se fosse riuscito a sopravvivere. Un grido lamentoso si levò dall’abisso, e una grande aquila verde strillò, nascosta nell’aria, sul fianco della montagna.

Si domandò dove fosse Chryseis in quel momento. Era viva, e, in caso affermativo, cosa stava facendo? E dov’era il corno? Kickaha aveva detto che dovevano trovare il corno se volevano avere qualche speranza di vittoria. Senza di esso, sarebbero stati inevitabilmente perduti.

Con questi pensieri, anch’egli si addormentò.

Quattro giorni dopo, quando il sole si trovava a metà del suo percorso intorno al pianeta, si issarono sul ciglio del dirupo. Davanti a loro si parò una pianura ondulata, che si sviluppava per più di duecento chilometri prima di sparire oltre l’orizzonte. Da entrambi i lati, a circa centocinquanta chilometri di distanza, si levavano delle catene montuose. Dovevano essere tanto alte da fare sfigurare l’Himalaya. Ma erano minuscoli topolini, accanto al monolito, Abharhploonta, che dominava quel settore del pianeta dai molti piani Abharhploonta era, così affermava Kickaha, a 2500 chilometri dal bordo, eppure sembrava a soli cento chilometri di distanza. Torreggiava come la montagna che avevano appena scalato.

«Adesso ti sei fatto un’idea» disse Kickaha. «Questo mondo non è a forma di pera. È una torre di Babele su scala planetaria. Una serie di colonne contorte, ciascuna più piccola di quella sottostante. All’apice di questa torre grande come la Terra si trova il palazzo del Signore. Come vedi, abbiamo davanti a noi ancora una lunga strada.»

Fece una pausa, poi proseguì:

«Ma è una vita degna, finché dura! Ho passato degli anni selvaggi e meravigliosi! Se il Signore mi colpisse in questo momento, non potrei lamentarmi. Sebbene, ovviamente, essendo umano compiangerei il mio destino di morire nella giovinezza! Perché credimi, amico mio, questi sono gli anni della mia giovinezza.»

Wolff non poté fare a meno di sorridere al giovane. Aveva un aspetto così allegro e accattivante, come una statua di bronzo toccata improvvisamente dalla vita, e desiderosa di trasmettere all’universo intero la sua gioia di vivere.

«D’accordo!» gridò Kickaha. «La prima cosa che dobbiamo fare è di trovare degli abiti adatti a te! La nudità è molto elegante nel piano sottostante, ma non su questo. Dovrai indossare per lo meno un perizoma, e una penna tra i capelli; altrimenti, i nativi ti disprezzeranno. E qui il disprezzo significa morte o schiavitù per l’oggetto di disprezzo.»

Cominciò a camminare sul bordo, seguito da Wolff.

«Osserva quanto è alta e verde e rigogliosa l’erba. Arriva al ginocchio, Bob. Offre pascolo agli animali. Ma è anche abbastanza alta da nascondere le bestie che si nutrono degli animali che vengono al pascolo. Sta’ attento! I puma della pianura e il lupo predatore e il cane cacciatore a strisce e la donnola gigante vagano tra le erbe. E poi c’è il Felis atrox. Una volta esso vagava nelle pianure del Sudovest nordamericano, e si estinse laggiù diecimila anni or sono. Qui è vivo e vegeto, più grosso di un terzo del leone africano, e feroce due volte tanto.

«Ehi, guarda laggiù! Dei mammut!»

Wolff voleva fermarsi a guardare le grosse bestie grige, che si trovavano a circa mezzo chilometro. Ma Kickaha lo spinse a proseguire.

«Ce ne sono molti in giro, e delle volte avrai il desiderio di non trovarne. Passa il tempo a sorvegliare l’erba. Se si muove in senso contrario al vento, dimmelo.»

Procedettero rapidamente per tre chilometri. Durante questo periodo, si avvicinarono a una banda di cavalli selvaggi. Gli stalloni partirono al galoppo per andare a vedere di chi si trattava, poi si fermarono, sbuffando e nitrendo, finché i due non furono passati oltre. Erano animali stupendi, alti, snelli, e neri o rossi o chiazzati.

«Qui non ci sono pony indiani» disse Kickaha. «Penso che il Signore abbia importato solo i prodotti migliori.»

Poco dopo, Kickaha si fermò davanti a una pila di rocce.

«La mia boa» disse lui. Da quel punto, si inoltrò nella pianura, procedendo diritto per un chilometro. Arrivarono davanti a un alto albero. Il giovane fece un salto, afferrò il ramo più basso, e cominciò ad arrampicarsi. Quando fu a metà del tronco, raggiunse un’apertura nello stesso, e ne tirò fuori una grossa borsa. Di nuovo a terra, Kichaha aprì la borsa e ne estrasse due archi, due faretre piene di frecce, due perizomi di pelle di antilope, e una cintura con una guaina di pelle, nella quale si trovava un lungo coltello d’acciaio.

Wolff indossò perizoma e cintura e prese l’arco e la faretra.

«Sai come usarli?» domandò Kickaha.

«Mi sono esercitato per tutta la vita.»

«Bene. Avrai più di una possibilità per mettere alla prova la tua abilità. Andiamo. Dobbiamo percorrere diversi chilometri.»

Cominciarono ad andare, col passo dei lupi: cento passi di corsa, cento passi ad andatura normale. Kickaha indicò la catena di montagne che si trovava a destra.

«Laggiù la mia tribù, gli Hrowakas, il Popolo dell’Orso, vive e caccia. A centoventi chilometri di distanza. Una volta là, possiamo passarcela bene per qualche tempo, e prepararci per il lungo viaggo che ci attende.»

«Non hai l’aspetto di un indiano» disse Wolff.

«E tu, amico mio, a tua volta non hai l’aspetto di un uomo di sessantasei anni. Ma eccoci qui. Bene. Ho atteso prima di raccontarti la mia storia, perché volevo sentire la tua. Stanotte parlerò.»

Quel giorno, non si scambiarono molte altre parole. Di quando in quando, Wolff vedeva qualche animale e lanciava un’esclamazione. C’erano grandi mandrie di bisonti, neri, pelosi, e molto più grossi dei loro cugini terrestri. C’erano bande di cavalli e una creatura che somigliava al cammello. Molti mammut, e una famiglia di mastodonti. Un’orda di sei lupi predatori corse accanto ai due uomini, a distanza ragionevole, per qualche tempo. Erano molto grossi.