«NgashuTangis, uno dei miei cognati.»
Due Amerindi scesero di sella e diedero il benvenuto a Kickaha con lunghi abbracci e discorsi concitati. Kickaha attese che si fossero calmati, quindi cominciò a parlare a lungo, con voce ansiosa. Frequentemente, puntava il dito contro Wolff. Dopo quindici minuti di discorso, interrotto di quando in quando da una rapida domanda, si voltò sorridente verso Wolff.
«Siamo fortunati. Si dirigono verso un villaggio degli Tsenakwa, che vivono abbastanza vicino agli Alberi dalle Molte Ombre. Ho spiegato il motivo della nostra presenza, sebbene abbia conservato il segreto su alcuni particolari. Non sanno che stiamo sfidando il Signore in persona, e non ho intenzione di spiegarlo. Ma sanno che siamo sulle tracce di Chryseis e dei gworl, e che tu sei un mio amico. Sanno anche che Podarge ci aiuta. Hanno un enorme rispetto per lei e le sue aquile, e se possono, le fanno qualsiasi favore.
«Hanno molti cavalli di riserva, come puoi vedere. Mi dispiace soltanto che tu non possa visitare le case del Popolo dell’Orso, e che io non possa andare a trovare le mie due mogli, Giushowei e Angwanat. Ma in questo mondo non si può ottenere tutto.»
La pattuglia di guerrieri cavalcò quel giorno e il giorno seguente, cambiando di cavalcatura ogni mezz’ora. Wolff si abituò alla sella… anzi, alla coperta che si trovava sulla schiena del cavallo. Dopo tre giorni, si era talmente abituato che c’era ben poca differenza tra lui e qualsiasi altro componente del Popolo dell’Orso. Poteva cavalcare per un giorno intero senza fatica.
Il quarto giorno, la pattuglia rimase bloccata per otto ore. Una mandria di giganteschi bisonti barbuti marciava sulla loro strada; gli animali formavano una colonna lunga quindici chilometri e larga tre, una barriera che nessuno, uomo o animale, poteva superare. Wolff era furioso, ma gli altri non sembravano molto disturbati, perché cavalli e cavalieri avevano bisogno di riposo. Poi, alla fine della colonna, passò un centinaio di cacciatori Shanikotsa: gli indiani erano intenti a pungolare i bisonti, e ad affondare nelle loro carni le lance. Gli Hrowakas volevano piombare su di loro e sterminare l’intero gruppo, e solo il discorso logicissimo di Kickaha li trattenne. Dopo, Kickaha disse a Wolff che il Popolo dell’Orso credeva che ciascuno di loro valesse dieci guerrieri di altre tribù.
«Sono grandi combattenti, ma un po’ troppo fiduciosi in se stessi e arroganti. Se sapessi quante volte ho dovuto convincerli a non cacciarsi in situazioni dalle quali non avrebbero potuto uscire!»
Continuarono a cavalcare, ma si fermarono un’ora dopo accanto a NgashuTangis, uno degli esploratori della giornata. Costui era arrivato al galoppo, gridando e facendo cenni frenetici. Kickaha gli fece delle domande, poi disse a Wolff:
«Una delle aquile di Podarge si trova a due chilometri da qui. È scesa su un albero, e ha domandato a NgashuTangis di portarmi da lei. Non può venire da sola: è stata sconfitta da uno stormo di corvi, ed è in condizioni disperate. Sbrighiamoci!»
L’aquila era appollaiata sul ramo più basso di un albero solitario, con le zampe strette intorno al ramo, che si piegava sotto il suo peso. Le sue penne verdi erano coperte di sangue rappreso, e un occhio le era stato strappato. Con l’altro, fissò torvamente il Popolo dell’Orso, che si mantenne a una rispettosa distanza. Parlò in greco miceneo a Kickaha e a Wolff.
«Io sono Aglaia. Ti conosco da molto tempo, Kickaha… Kickaha l’imbroglione. E ti ho conosciuto, Wolff quando tu eri ospite di Podarge dalle grandi ali, mia sorella e regina. Fu lei che mandò molte di noi a cercare la driade Chryseis e i gworl e il corno del Signore. Ma io. io sola, ho visto loro entrare tra gli Alberi dalle Molte Ombre, all’altro capo della pianura.
«Sono scesa in picchiata su di loro, sperando di sorprenderli e di impadronirmi del corno. Ma mi hanno vista, e hanno formato un muro di coltelli contro il quale non potevo fare a meno di impalarmi. Così ho volato in alto, così in alto che essi non potevano più vedermi. Ma io, dominatrice dei cieli dalla vista acutissima, potevo vederli.»
«Conservano la loro arroganza anche mentre muoiono» disse piano Kickaha a Wolff, in inglese. «È degno di loro.»
L’acqua offerta da Kickaha fu bevuta dall’aquila, e la dominatrice dei cieli continuò il suo racconto.
«Quando la notte cadde, si accamparono ai bordi di una macchia d’alberi. Io atterrai sull’albero sotto il quale la driade dormiva sotto una coperta di pelle d’antilope. Su di essa, vidi che c’era del sangue rappreso; era un vestito, e penso appartenesse all’uomo ucciso dal gworl. Lo stavano macellando, e si preparavano a cuocerlo sui loro fuochi.
«Scesi a terra, dalla parte opposta dell’albero. Avevo sperato di parlare alla driade, magari anche di permetterle di fuggire. Ma un gworl, seduto vicino a lei, aveva udito il battito delle mie ali. Guardò dall’altra parte dell’albero, e questo fu il suo errore, perché i miei artigli lo colsero in mezzo agli occhi. Calò il suo coltello, e cercò di liberarsi della mia presenza. E così fece, ma gran parte della sua faccia ed entrambi gli occhi mi rimasero negli artigli. Dissi allora alla driade di fuggire, ma lei allora si alzò e la veste le cadde. Vidi allora che aveva mani e piedi legati.
«Entrai nel sottobosco, lasciando il gworl a lamentarsi per i suoi occhi. Anche per la sua morte, perché i suoi compagni non avrebbero mai sopportato il peso di un guerriero cieco. Fuggii tra i boschi e tomai nella pianura. Là fui in grado di spiccare di nuovo il volo. Volai verso il nido del Popolo dell’Orso, per avvertire voi, Kickaha, e Wolff, amato della driade. Ho volato per tutto il giorno, dopo un’intera notte.
«Ma una pattuglia da caccia degli Occhi del Signore mi individuò per prima. Erano sopra e davanti a me, in un lampo di luce. Si abbatterono su di me, quegli indegni uccelli, e mi colsero di sorpresa. Io caddi, trascinata dal loro peso, con dozzine di speroni sul mio corpo. Io caddi, vorticando su me stessa e sanguinando dalle ferite inferte dai loro becchi aguzzi.
«Allora io, Aglaia, sorella di Podarge, mi riscossi e ripresi i sensi. Affrontai gli insidiosi corvi e staccai loro la testa e dilaniai le loro ali e le loro zampe. Da sola uccisi i dodici che erano su di me, solo per trovarmi attaccata dal resto dell’orda. Combattei contro di essi, e la storia fu la stessa. Essi morirono, ma morendo causarono la mia morte. Solo perché erano così tanti.»
Ci fu una pausa. L’aquila li fissò con l’occhio che le restava, ma la vita stava rapidamente sollevando da esso il sipario che copriva l’abisso oscuro della morte. La gente del Popolo dell’Orso era caduta in un silenzio mortale; perfino i cavalli avevano cessato di sbuffare. Il vento mormorante tra i rami era il rumore più forte che si udiva.
Bruscamente, Aglaia parlò con voce bassa, ma ancora altera:
«Dite a Podarge che non deve vergognarsi di me. E promettimi, Kickaha… non usare con me i tuoi imbrogli… promettimi che Podarge sarà avvertita.»
«Lo prometto, Aglaia» disse Kickaha. «Le tue sorelle verranno qui e porteranno il tuo corpo lontano dai bordi del mondo, nel cielo verde e tu sarai mandata a galleggiare per sempre nell’abisso, libera nella morte come lo sei stata in vita, fino a quando non cadrai nel sole, o troverai il luogo del tuo riposo sulla luna.»
«Uomo, ti ritengo legato alla tua parola» disse lei. La sua testa ricadde, e il suo corpo cadde in avanti. Ma gli artigli d’acciaio erano richiusi sul ramo, e così l’aquila cominciò a muoversi come un pendolo. Le immense ali si aprirono, e la loro punta sfiorò l’erba alta.
Kickaha esplose in un fiume di ordini. Due uomini furono inviati a cercare delle aquile a cui riferire le parole di Aglaia e la notizia della sua morte. Lui non disse nulla, naturalmente, a proposito del corno, e fu costretto a sprecare un certo periodo di tempo per insegnare ai due esploratori un breve discorso in miceneo. Dopo essersi assicurato che i due avevano imparato a memoria il discorso in maniera soddisfacente, li mandò via. Poi ci fu un altro ritardo, per sollevare il corpo di Aglaia, in modo che fosse raggiungibile soltanto dal cielo, o dai puma.