Le trombe squillarono di nuovo. La giumenta e lo stallone nero partirono al galoppo. Si incontrarono a tutta andatura, agitando le spade. Le spade cozzarono: una vibrazione paralizzante formicolò nella mano e nel braccio di Wolff. Comunque, quando voltò la sua cavalcatura, vide che la spada dell’avversario era nella polvere. Il giudeo stava scendendo da cavallo in fretta, per raccogliere la sua spada prima di Wolff. La fretta gli giuocò un brutto scherzo: scivolò, e cadde lungo disteso nella polvere.
Wolff fece trotterellare il suo cavallo, e scese lentamente, per dar tempo al suo avversario di recuperare. A questo atto cavalleresco, entrambi gli accampamenti esplosero in un’ovazione. Secondo le regole, Wolff avrebbe potuto restare in sella, e infilzare il funem Laksfalk senza permettergli di raccogliere la spada.
A terra, si affrontarono. Il cavaliere giudeo sollevò la visiera, rivelando un volto bello e virile. Aveva dei baffi folti, e degli occhi celesti. Disse:
«Ti prego di lasciarmi vedere il tuo volto, nobile signore. Tu sei un vero cavaliere, perché non mi hai colpito mentre ero indifeso.»
Wolff sollevò la visiera per pochi secondi. Poi avanzarono entrambi, e incrociarono le spade. Ancora una volta, il colpo di Wolff fu così possente che la lama dell’avversario volò via.
Il funem Laksfalk sollevò la visiera, questa volta con la mano sinistra. Disse:
«Non posso usare il braccio destro. Mi permetti di usare quello sinistro?»
Wolff salutò, e fece un passo indietro. Il suo avversario strinse l’impugnatura della spada, e colpì con tutte le sue forze. Anche questa volta, la forza del colpo di Wolff fece volar via l’arma del giudeo.
Il funem Laksfalk sollevò la visiera per la terza volta.
«Tu sei un campione quale mai ho incontrato. Detesto di doverlo ammettere, ma tu mi hai sconfitto. E questo mai l’ho detto a nessuno, né mai avrei pensato di dirlo. Tu hai la forza del Signore.»
«Puoi tenere la tua vita, il tuo onore, la tua armatura e il tuo cavallo» replicò Wolff. «Voglio solo che al mio amico Von Horstmann e a me sia concesso di proseguire senza ulteriori sfide. Abbiamo un appuntamento.»
Il giudeo rispose che così sarebbe stato. Wolff ritornò al suo accampamento, dove fu accolto con esplosioni di giubilo, anche da coloro che lo avevano considerato un cane Khamshem.
Bruscamente, Kickaha ordinò di togliere le tende. Wolff gli chiese se, per caso, non avrebbe fatto più in fretta senza il peso di una carovana.
«Certo, ma qui non succede spesso» rispose Kickaha. «Oh, al diavolo, hai ragione. Li mando subito a casa. E adesso togliti questo dannato scatolame.»
Non avevano percorso molta strada, quando udirono il rumore di un cavallo che si avvicinava. Dietro di loro stava galoppando il nero quadrupede del funem Laksfalk, anch’egli privo della sua armatura. I due amici si fermarono, onde permettergli di raggiungerli.
«Nobili cavalieri» disse il giudeo, sorridendo. «So che vi cimentate in un’impresa. È troppo se vi domando di unirmi a voi? Mi sentirei onorato. Sento anche che soltanto aiutandovi potrò redimere la mia sconfitta.»
Kickaha diede un’occhiata a Wolff, e disse:
«Tocca a te decidere. Ma personalmente posso dire che mi piace il suo stile.»
«Vorrai piegarti ad aiutarci in qualsiasi cosa noi faremo? Sempre che essa non sia disonorevole, certo. Potrai liberarti dalla tua promessa in ogni momento, ma devi giurare su tutto ciò che è sacro che non aiuterai mai i nostri nemici.»
«Lo giuro, per il sangue di Dio e la barba di Mosè.»
Quella notte, piantate le tende, Kickaha disse:
«Il fatto di avere con noi il funem Laksfalk potrebbe complicare un problema. Dobbiamo ripulirti di quella tintura e anche la barba deve sparire. Altrimenti, se ci imbatteremo in Abiru, lui potrebbe riconoscerti.»
«Una bugia tira l’altra» disse Wolff. «Be’, digli che io sono il figlio minore di un barone che mi ha scacciato perché il mio fratello maggiore, indegno e geloso, mi ha accusato falsamente. Da allora ho vagato di impresa in impresa, travestito da saraceno. Ma intendo tornare al castello di mio padre… che ora è morto… e sfidare a singoiar tenzone mio fratello.»
«Favoloso! Tu sei un secondo Kickaha! Ma come giustificheremo l’esistenza di Chryseis e del corno?»
«Ci penseremo. Forse potremo dirgli la verità. Può sempre ritirarsi, quando scoprirà che combattiamo nientemeno che il Signore.»
Il mattino dopo cavalcarono fino al villaggio di Etzelbrand. Qui Kickaha acquistò delle pozioni dallo Stregone Bianco del luogo, e lece un miscuglio per togliere la tinta dalla pelle di Wolff. Quando ebbero lasciato il vOlaggio, si fermarono al piccolo accampamento. Il funem Laksfalk guardò con interesse, poi con stupore, infine con sospetto, la barba che cadeva e la tintura che spariva.
«Per gli occhi di Dio! Prima eri un Khamshem, ora potresti essere un Giudeo.»
Allora Kickaha si lanciò nella narrazione di una storia dettagliatissima, lunga tre ore, nella quale Wolff era il figlio bastardo di una nobile vergine giudea e di un cavaliere teutonico impegnato in una ricerca. Il cavaliere, che si chiamava Robert Von Wolfram, era rimasto nel castello giudaico dopo essersi coperto di gloria durante un torneo. Lui e la vergine si erano innamorati, troppo innamorati. Quando il cavaliere era partito, giurando di ritornare dopo aver completato la sua ricerca, aveva lasciato incinta Rivke. Ma Von Wolfram era stato ucciso e la ragazza aveva dovuto portare il piccolo Robert nella vergogna. Suo padre l’aveva scacciata, e l’aveva mandata in un piccolo villaggio Khamshem, per sempre. La ragazza era morta dando alla luce Robert, ma una vecchia serva fedele aveva rivelato al ragazzo il segreto della sua origine. Il giovane bastardo aveva giurato allora che, una volta uomo, sarebbe andato al castello di suo padre a reclamare la sua giusta eredità. Il padre di Rivke ora era morto ma suo fratello, un vecchio perverso, era padrone del castello. Robert era deciso a strappargli la baronia, se egli non l’avesse ceduta.
Il funem Laksfalk aveva lacrime negli occhi, alla fine della storia. Egli disse:
«Verrò con te, Robert, e ti aiuterò a vincere il tuo crudele zio. Allora avrò redento la mia sconfitta.»
Più tardi. Wolff rimproverò a Kickaha di avere elaborato una storia così fantastica, tanto dettagliata da potere essere smontata con la massima facilità. Inoltre, non gli piaceva ingannare un uomo degno come il cavaliere giudaico.
«Assurdo! Non potevamo dirgli tutta la verità, ed è più facile inventare una completa bugia che una mezza verità! E poi, ti assicuro che si è goduto un mondo le sue lacrime! E io sono Kickaha, il kickaha, l’ingannatore, il creatore di fantasie e di realtà, io sono l’uomo che i confini non possono trattenere. Scivolo da uno all’altro, sono Finnegan e non lo sono più. Sembra che mi uccidano, ed ecco, appaio di nuovo, allegro e pericoloso! Sono più veloce degli uomini più forti di me, e più forte di quelli più veloci! Sono fedele a pochi, ma per quei pochi la mia fedeltà è incrollabile! Sono il prediletto di ogni donna, dovunque io vada, e molte lacrime vengono versate quando io scompaio nella notte come un fantasma dai capelli rossi! Ma le lacrime non mi possono trattenere, come non mi possono trattenere le catene! Me ne vado, e dove appaio e quale sarà il mio nome, lo sanno in pochi! Sono la persecuzione del Signore, che non dorme di notte perché io sfuggo ai suoi Occhi, i corvi, e ai suoi cacciatori, i gworl!»
Kickaha tacque, e scoppiò a ridere. Wolff fu costretto a sorridere a sua volta. Era evidente che Kickaha si prendeva gioco di sé. Comunque, un po’ ci credeva, e come si poteva dargli torto? Le sue parole non erano affatto esagerate.
Questo pensiero condusse a una serie di ipotesi che fecero corrugare la fronte a Wolff. Era possibile che Kickaha fosse addirittura il Signore travestito? Per lui avrebbe potuto essere divertente fare da preda e da cacciatore a un tempo. Quale divertimento migliore per un Signore, un uomo che doveva continuamente cercare il nuovo per non morire d’inedia? In lui c’erano molte cose inspiegate.