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Wolff, scrutando il volto di Kickaha. cercando di scoprire qualche indizio, senti svanire i propri dubbi. Quel viso allegro non era certo la maschera dietro alla quale si nascondeva l’essere freddo e spietato che giocava con la vita degli esseri umani. E c’era l’inconfondibile accento americano di Kickaha, con tutte le voci dialettali: un Signore avrebbe potuto recitare così bene?

Bene, perché no? Kickaha era padrone di molti altri dialetti e di molte altre lingue, e sembrava cavarsela alla perfezione.

Così pensò Wolff durante quel lungo pomeriggio, mentre cavalcavano. Ma la cena e i liquori e la cordialità della loro amicizia dissiparono l’incantesimo e, prima di dormire, già aveva dimenticato i suoi dubbi. I tre si erano fermati in una taverna del villaggio di Gnazelschist, e avevano mangiato e bevuto di gusto. Wolff e Kickaha si mangiarono insieme un intero porcello arrosto. Il funem Laksfalk, che si radeva e prendeva con una certa liberalità molti altri dettami della sua religione, rifiutò però il maiale proibito. Mangiò del vitello… anche se sapeva che non era stato macellato à la kosher, cioè secondo il rito giudaico. Tutti e tre inghiottirono numerosi bicchieri dell’ottima birra nera locale, e durante la conversazione che si sviluppò tra le libagioni, Wolff raccontò al funem Laksfalk una edizione riveduta e corretta della sua ricerca di Chryseis… una impresa davvero nobile, convennero insieme, e poi traballando se ne andarono a letto.

Il giorno dopo presero una scorciatoia tra le colline, che avrebbe abbreviato la strada di tre giorni… se fossero riusciti a passare. La strada era pochissimo usata, e con ottime ragioni, perché la zona era infestata da draghi e predoni. Un orribile mostro uscì da un riparo nella roccia a poche decine di metri da loro, ma scomparve subito dopo, ansioso quanto loro di evitare un combattimento.

Scendendo dalla collina, Wolff disse:

«Un corvo ci segue.»

«Già, lo so, ma non perdere la testa. Sono da tutte le parti. Credo che non sappia chi siamo. Lo spero sinceramente.»

Il giorno seguente, a mezzogiorno, entrarono nel territorio della Contea di Tregyln. Ventiquattro ore dopo, furono in vista del castello di Tregyln, il feudo del Barone Von Elgers. Si trattava del castello più grande che Wolff avesse visto. Era di pietra nera, si trovava sulla cima di un’alta collina che sorgeva a un paio di chilometri dalla città di Tregyln.

I tre, indossando l’armatura, tenendo alti i pennoni, cavalcarono decisamente verso il munitissimo castello. Un armigero uscì da una garitta davanti al ponte levatoio, e domandò gentilmente cosa desiderassero.

«Riferisci al nobile signore che tre cavalieri di buona fama vorrebbero essere suoi ospiti» disse Kickaha. «I baroni Von Horstmann e Von Wolfram e il famoso barone giudeo, funem Laksfalk. Cerchiamo un nobile che ci assoldi per combattere o che ci dia una missione da compiere.»

Il sergente gridò qualcosa a un caporale, che attraversò il ponte levatoio. Pochi minuti dopo, uno dei figli di Von Elgers, un giovane stupendamente vestito, venne loro incontro ad accoglierli, a cavallo. All’interno del grande cortile, Wolff vide qualcosa che lo disturbò. Numerosi Khamshem e Sholkin stavano passeggiando e giocando tra loro.

«Non ci riconosceranno» disse Kickaha. «Sta’ tranquillo. Se sono qui, ci saranno anche Chryseis e il corno.»

Dopo essersi assicurati che i loro cavalli avrebbero ricevuto un buon trattamento, i tre si recarono nei quartieri loro assegnati. Si lavarono e indossarono i vestiti dai colori sgargianti mandati loro da Von Elgers. Wolff notò che questi abiti non erano molto diversi da quelli usati nel tredicesimo secolo. Le sole innovazioni, disse Kickaha, erano dovute a influenze aborigene.

Quando entrarono nel grande salone da pranzo, la cena era in pieno svolgimento. Era una vera esplosione, perché il frastuono era assordante. Metà degli ospiti erano quasi sbronzi, e gli altri avevano passato da tempo quel punto. Von Elgers riuscì ad alzarsi per dare il benvenuto agli ospiti. Amabilmente, chiese scusa per essersi fatto trovare in simili condizioni a un’ora così inconsueta.

«Da molti giorni abbiamo intrattenuto il nostro ospite Khamshem. Ci ha portato un’inattesa ricchezza, e già ne abbiamo speso un poco per festeggiare.»

Si voltò per presentare Abiru, si mosse troppo velocemente, e per poco non cadde. Abiru si alzò per ricambiare il suo inchino. I suoi occhi neri passarono su di loro come la punta di una spada; il suo sorriso era ampio, ma meccanico. A differenza degli altri, pareva sobrio. I tre si sedettero in tre sedie che erano vicine a quelle del Khamshem, perché coloro che le avevano occupate in precedenza erano già nel mondo dei sogni, sotto il tavolo. Abiru sembrava ansioso di parlare con loro.

«Se cercate lavoro, avete trovato l’uomo giusto. Pago il barone perché mi scorti nell’entroterra, ma la strada è lunga e difficile, e delle spade in più sono sempre le benvenute.»

«E qual è la tua destinazione?» domandò Kickaha. Chiunque lo avesse guardato, avrebbe pensato che l’interesse del giovane per la destinazione di Abiru era soltanto vago e accademico, perché Kickaha stava guardando con occhi avidi la bionda bellezza che sedeva davanti a lui, dall’altra parte della tavola.

«Non è certo un segreto» rispose Abiru. «Il signore di Kranzelkracht è reputato uomo molto strano, ma si dice anche che le sue ricchezze siano più grandi di quelle del Gran Maresciallo di Teutonia.»

«Lo so per certo» rispose Kickaha. «Sono stato là, e ho visto i suoi tesori. Molti anni or sono, così si dice, egli sfidò l’ira del Signore e scalò la grande montagna che porta sul piano di Atlantide. Depredò il palazzo del tesoro dello stesso Rhadamanthus, e se ne andò con gioie e preziosi. Da allora, Von Kranzelkracht ha aumentato le sue ricchezze, conquistando gli stati che circondano il suo. Si dice che il Gran Maresciallo sia preoccupato di questo, e che stia progettando di organizzare una crociata contro di lui. Il Maresciallo afferma che quell’uomo è un eretico. Ma se lo fosse, il Signore non lo avrebbe incenerito con un fulmine già da molto tempo?»

Abiru chinò il capo e si toccò la fronte con la punta delle dita.

«Il Signore agisce per vie misteriose. Inoltre, chi se non il Signore conosce la verità? In ogni modo, io porto i miei schiavi e certi miei beni a Kranzelkracht. Penso di ottenere un immenso guadagno dalla mia impresa, e quei cavalieri che avranno l’ardire di aiutarmi riceveranno molto oro… per non parlare della gloria.»

Abiru si interruppe, e bevve un bicchiere di vino. Kickaha, avvicinandosi ancora a Wolff, disse:

«Quel tipo è bugiardo quanto me. Intende servirsi di noi per arrivare a Kranzelkracht, che è proprio ai piedi del monolito. Poi porterà Chryseis e il corno ad Atlantide, dove sarà pagato con montagne d’oro e gioielli.

«Questo è il suo progetto, a meno che il suo piano non sia più sottile di quanto io pensi.»

Sollevò il calice e bevette a lungo, o per lo meno, finse di farlo. Poi posò con violenza il calice, ed esclamò:

«Che io sia dannato se non c’è qualcosa di familiare in Abiru! Ho avuto una strana sensazione, la prima volta che l’ho visto, ma dopo sono stato troppo impegnato per occuparmene. Ma adesso sono sicuro di averlo già visto.»

Wolff rispose che questo non era sorprendente. Quanti volti aveva visto, nei suoi vent’anni di vagabondaggio?

«Forse hai ragione» mormorò Kickaha. «Ma non penso che si sia trattato di una conoscenza occasionale. Sarei felice di potergli staccare la barba.»

Abiru si alzò e si scusò, dicendo che era l’ora della preghiera al Signore e alla sua divinità personale, Tartartar. Sarebbe ritornato dopo le sue devozioni. A queste parole, Von Elgers richiamò due armigeri e ordinò loro di accompagnare l’ospite nei suoi appartamenti e di assicurarsi che tutto fosse a posto, Abiru s’inchinò e lo ringraziò per la sua premura. Ma a Wolff non sfuggi l’intenzione che si celava dietro l’apparente cortesia del barone. Non si fidava del Khamshem, e Abiru lo sapeva. Von Elgers, malgrado fosse ubriaco, capiva perfettamente quanto accadeva, e non avrebbe perduto per un istante solo il controllo della situazione.