Questo lo rese soddisfatto, insieme a un’altra cosa. Si era imbattuto nella prova che i gworl erano passati da quella parte. C’erano ciuffi di pelo gworl sulle spine, e pezzi di stoffa. Senza dubbio, questi ultimi erano stati fatti cadere da Kickaha, per fornire a Wolff una traccia, se egli li avesse seguiti.
CAPITOLO XV
Un mese dopo, finalmente arrivarono ai piedi del monolito, la Doozvillnavava. Sapevano di essere sulla pista giusta, perché avevano sentito voci che parlavano dei gworl, e avevano interrogato persone che li avevano visti da una certa distanza.
«Non so perché si sono tanto allontanati dal corno» disse lui. «Forse pensano di nascondersi in una caverna sulla montagna, e di tornare dopo che le acque si siano quietate.»
«Potrebbe darsi disse Chryseis, che il Signore abbia loro ordinato di portargli per primo Kickaha. È stato per tanto tempo una pulce nell’orecchio del Signore, che il Signore potrebbe essere esasperato solo a pensarci. Forse vuole essere sicuro dell’eliminazione di Kickaha, prima di mandare di nuovo i gworl alla ricerca del corno.»
Wolff ammise che la donna poteva avere ragione. Era possibile perfino che il Signore fosse deciso a calarsi dal suo palazzo con le stesse corde che erano servite ai gworl. Però questo non pareva probabile, perché il Signore doveva essere cauto. Poteva fidarsi dei gworl? Avrebbero potuto lasciarlo giù per sempre.
Wolff guardò la contorta montagna, grande come un continente. Secondo Kickaha era alta almeno due volte il monolito dell’Abharhploonta, sul quale poggiava il piano di Drachelandia. Era alta più di ventimila metri, e le creature che dimoravano sulle sue pendici erano crudeli, avide e feroci quanto quelle che si nascondevano nelle caverne degli altri monoliti. La Doozvillnavava era terrificante; la sua faccia contorta aveva un’enorme depressione, che le dava l’aspetto di una bocca spalancata; il gigante sembrava pronto a inghiottire tutti coloro che osavano disturbarlo.
Chryseis, esaminando l’agghiacciante monolito, rabbrividì. Ma non disse nulla; già da qualche tempo aveva cessato di dare voce alle sue paure.
Forse non si preoccupava più di se stessa, ma della vita che era dentro di lei. Infatti, la donna era sicura di essere incinta.
L’abbracciò e la baciò e le disse:
Vorrei partire subito, ma dobbiamo fare diversi preparativi. Non possiamo attaccare quel mostro senza riposo e senza cibo sufficiente.
Tre giorni dopo, indossando abiti adatti e portando corde, armi, attrezzi da scalata, e borse di cibo e acqua, essi cominciarono l’ascesa. Wolff portava ii corno in una borsa di pelle legata alla cintola.
Novantun giorni dopo, erano a circa metà del percorso. E ogni passo era stato una battaglia contro le pareti levigate, i punti insidiosi, i crepacci e i dirupi e i massi scivolosi, e i predatori. Questi comprendevano il serpente dai molti piedi che già aveva incontrato sulla Thayaphayawoed, lupi dai lunghi artigli capaci di fare presa sulla roccia, la scimmia gigante, enormi divoratori, e altri esseri più piccoli ma ferocissimi.
Quando i due giunsero in cima alla Doozvillnavava, erano passati 186 giorni dalla loro partenza. Né l’uno né l’altra erano uguali, fisicamente e mentalmente, a come erano stati prima del viaggio. Wolff era dimagrito, ma era più forte e resistente. Sul volto e sul corpo portava cicatrici che testimoniavano terribili lotte contro gli animali rapaci. Il suo odio per il Signore era ancor più feroce, perché Chryseis aveva perduto il feto quando erano arrivati a 3000 metri di altezza. Era una cosa prevista, ma lui sapeva che questo non sarebbe accaduto, se non fosse stato per il Signore.
Chryseis era stata rafforzata nel corpo e nello spirito dalle esperienze sopportate prima di affrontare la Doozvillnavava. Ma le esperienze e le situazioni che aveva dovuto sfidare durante la scalata erano state ben peggiori di ogni precedente avversità, e avrebbe potuto cedere. Questo non accadde, confermando così l’idea originaria di Wolff, a proposito della sua forza morale costituzionale. Gli effetti dei millenni di torpore nel Giardino erano stati spazzati via. La Chryseis che aveva soggiogato il monolito era molto più simile a quella che aveva affrontato le avversità della vita sull’Egeo. Solo che adesso era molto più saggia.
Wolff attese diversi giorni, che passò riposando e cacciando e riparando gli archi e fabbricando nuove frecce. Rimase inoltre a scrutare il cielo, sperando nell’arrivo di un’aquila. Da quando aveva parlato a Phthie nella città in rovina sul fiume Guzirit, non ne aveva più vista una. Non apparve nessuna creatura dal corpo verde, così egli decise, seppure riluttante, di addentrarsi nella giungla. Come su Drachelandia. un anello dello spessore di 1500 chilometri circondava completamente il margine del piano. All’interno della cintura si trovava la terra di Atlantide. Questa, escluso il monolito che sorgeva al centro, copriva un’area uguale a quelle sommate di Francia e Germania.
Wolff aveva cercato di vedere la colonna sulla quale sorgeva il palazzo del Signore, dato che Kickaha gli aveva detto che poteva essere visto dal ciglio del precipizio, anche se era molto più sottile degli altri monoliti. Riuscì a vedere soltanto un grande e oscuro continente di nubi, contorto e interrotto dai lampi. Idaquizzoorhruz era nascosto. E non riuscì a vederlo neppure scalando una collina o salendo sulla cima di un albero. Una settimana dopo, le nuvole tempestose continuavano a cingere la colonna di pietra. Questo lo preoccupava, perché, trovandosi su quel pianeta da tre anni e mezzo, non aveva mai visto una tempesta del genere.
Passarono quindici giorni. Il sedicesimo, trovarono sullo stretto sentiero bordato di verde un cadavere decapitato. Tra gli arbusti, a un metro di distanza, c’era il capo sormontato dal turbante di un Khamshem.
«Anche Abiru sta inseguendo i gworl» disse Wolff. «Forse i gworl gli hanno rubato i gioielli abbandonando il castello di Von Elgers. O, e questo è più probabile, lui pensa che siano loro adesso i padroni del corno.»
Dopo due chilometri si imbatterono in un altro Khamshem, con lo stomaco squarciato e le budella riversate all’esterno. Wolff cercò di strappargli delle informazioni, prima di convincersi che ormai era troppo tardi. Allora Wolff pose fine alle sue sofferenze, notando che Chryseis non distoglieva neppure lo sguardo dalla scena. Poi si infilò il pugnale alla cintura, e impugnò con la destra la scimitarra del saraceno. Sentiva che presto ne avrebbe avuto bisogno.
Mezz’ora dopo, udì delle grida e degli schianti in fondo al sentiero. Lui e Chryseis si nascosero nel fogliame, ai margini del sentiero. Abiru e due Khamshem vennero correndo con la morte alle loro spalle, rappresentata da tre negroidi dai volti pitturati e le lunghe barbe tinte di rosso. Uno lanciò la sua lancia: questa filò nell’aria e andò a colpire la schiena di un Khamshem. Questi cadde sul terreno soffice senza rumore, e rimase immobile come un vascello fantasma, il cui albero maestro era la lancia. Gli altri due Khamshem si voltarono per affrontare l’assalto.
Wolff fu costretto ad ammirare Abiru, che combatteva con grande perizia e coraggio. Sebbene il suo compagno fosse caduto con una lancia nello stomaco, Abiru continuò a vibrare colpi con la sua scimitarra. Infine due dei selvaggi morirono, e il terzo preferì darsela a gambe. Dopo la scomparsa del negroide, Wolff si avvicinò silenziosamente ad Abiru. Colpì col taglio della mano per paralizzare il braccio del saraceno e far cadere la scimitarra.
Abiru fu tanto impaurito e sorpreso che non riuscì a parlare. Vedendo Chryseis uscire dai cespugli, i suoi occhi si spalancarono ancora di più. Wolff gli chiese quale fosse la situazione. Dopo una breve lotta, Abiru ritrovò la parola, e cominciò a parlare. Come aveva immaginato Wolff, Abiru si era messo all’inseguimento dei gworl con i suoi uomini e un certo numero di Sholkin, A poche miglia da quel punto, aveva trovato i gworl. O meglio, erano stati loro a trovare lui. L’imboscata aveva ottenuto un parziale successo, perché un buon terzo dei Khamshem era stato ucciso o gravemente ferito. Tutto questo era avvenuto senza perdite da parte dei gworl, che avevano lanciato i coltelli dagli alberi o dai cespugli.