I Khamshem erano fuggiti, disperdendosi, nella speranza di potersi concentrare in un posto migliore, sul sentiero… se fossero riusciti a trovarne uno. Poi cacciati e cacciatori si erano imbattuti in un’orda di selvaggi negri.
«E presto ce ne saranno molti altri sulle tue tracce» disse Wolff. «Cosa è accaduto a Kickaha e al funem Laksfalk?»
«Non so niente di Kickaha. Non era con i gworl. Ma c’era il cavaliere giudeo.»
Per un istante, Wolff prese in considerazione l’opportunità di uccidere Abiru. Però non gli piaceva farlo a sangue freddo, e inoltre voleva fargli delle altre domande. Pensava che l’uomo nascondesse molte cose, e non fosse quello che fingeva di essere. Spingendo avanti Abiru, con la scimitarra alle costole, ripresero a discendere il sentiero. Abiru protestò, dicendo che sarebbero stati uccisi; Wolff gli disse di tacere. Dopo pochi minuti udirono le grida e le urla di uomini che combattevano. Attraversarono un torrentello e si trovarono ai piedi di un’impervia collina.
Questa era tanto rocciosa da sembrare quasi brulla. Sulle pendici della collina si sviluppava la lotta… c’erano gworl morti e feriti, Khamshem, Sholkin, e selvaggi. Verso la cima della collina, con le spalle contro una parete di roccia e sotto una specie di tettoia formata da due enormi macigni, tre combattenti respingevano i negri. Questi erano un gworl, un Khamshem, e il barone giudeo. Quando Wolff e Chryseis cominciarono a salire, il Khamshem cadde, crivellato di lance. Wolff disse a Chryseis di tornare indietro. Come risposta, lei infilò una freccia nell’arco e vibrò il colpo. Un selvaggio cadde, con una freccia infilata nella schiena.
Wolff sorrise amaramente, e cominciò a scagliare frecce a sua volta. Lui e Chryseis scelsero solo quelli che si trovavano in ultima fila, sperando di abbatterne un buon numero prima che gli altri si accorgessero dell’attacco Ebbero successo fino alla caduta del dodicesimo. Per caso un selvaggio si voltò e vide il compagno vicino a lui cadere. Gridò e attirò l’attenzione di coloro che si trovavano vicino a lui. Questi immediatamente brandirono le lance e scesero di corsa dalla collina, lasciando il gruppo principale ad attaccare i gworl e il giudeo. Prima di giungere a metà della collina, altri quattro erano stati uccisi.
Altri tre caddero colpiti dalle frecce. I sei superstiti persero ogni ardore. Fermandosi, lanciarono le loro armi, ma da una tale distanza che non fu difficile per gli arcieri evitarle. Wolff e Chryseis, agendo freddamente e razionalmente, come aveva loro insegnato la lunga pratica, ne abbatterono altri quattro. I due sopravvissuti, urlando, cercarono di correre verso i loro compagni in alto. Non ci riuscirono, sebbene uno fosse soltanto ferito alla gamba.
In quel momento, il gworl cadde. Il funem Laksfalk rimase solo contro quaranta. Aveva un leggero vantaggio, e cioè che i selvaggi potevano piombare su di lui soltanto a due per volta, a causa della particolare conformazione del luogo prescelto per l’assedio. Il funem Laksfalk, con la scimitarra roteante e coperta di sangue, cantava forte delle canzoni di guerra giudaiche.
Wolff e Chryseis riuscirono a trovare un certo riparo dietro due macigni, e altri cinque selvaggi caddero. Ma a questo punto, le frecce erano terminate. Wolff disse:
«Tirane fuori dai cadaveri, e usa quelle. Io vado a soccorrerlo.»
Raccolse una lancia e corse sulle pendici della collina, seguendo una scorciatoia, sperando che il grosso dei selvaggi fosse troppo occupato per vederlo. Quando fu dall’altra parte, vide due selvaggi in agguato sulla tettoia naturale del riparo di Laksfalk. Non potevano piombare su di lui, per la particolare conformazione dei macigni. Ma aspettavano il momento in cui il giudeo si fosse avventurato troppo avanti.
Wolff lanciò il suo proietto, e colpì uno dei selvaggi nelle natiche. Il selvaggio urlò e cadde in avanti dalla roccia, probabilmente sui suoi compagni che stavano attaccando. L’altro si alzò e si girò in tempo per ricevere il coltello di Wolff nello stomaco. Cadde in avanti.
Wolff sollevò un piccolo macigno, e lo issò in cima a uno dei grossi macigni, e si arrampicò. Poi sollevò di nuovo il piccolo macigno, lo sollevò al di sopra del capo, e avanzò fino sul ciglio del grande macigno. Gridò e lo gettò sulla folla di attaccanti. Questi sollevarono il capo giusto in tempo per vedere Sa roccia scendere su di loro. Ne travolse almeno tre, e rotolò dalla collina. A questo punto, i sopravvissuti fuggirono, in preda al panico. Forse pensavano che Wolff non fosse solo. O, visto che erano selvaggi indisciplinati, erano stati terrorizzati dalle troppe perdite subite t’inora. La visione di tutti i loro compagni uccisi alle loro spalle doveva avere contribuito al crearsi del panico.
Wolff sperò che non ritornassero. Per aggiungere fuoco all’incendio della loro paura, lanciò giù dalla collina un altro grosso macigno. Il macigno ballonzolando e saltando li inseguì, simile a un mostro d’incubo e ne colpì anche uno, prima di perdersi sul fondo.
Chryseis, dietro il suo riparo, uccise altri due selvaggi con le frecce.
Wolff si chinò sul barone, e lo trovò a terra. Il suo volto era grigiastro, e il sangue usciva dalla ferita di lancia che gli squarciava il petto.
«Tu!» disse con voce debole. «L’uomo di un altro mondo. Mi hai visto combattere?»
Wolff si chinò a esaminare la ferita.
«Ho visto. Hai combattuto come uno dei guerrieri di Giosuè, amico mio. Hai combattuto come mai ho visto combattere. Devi averne uccisi almeno venti.»
Il funem Laksfalk riuscì persino a sorridere:
«Erano venticinque. Li ho contati.»
Poi sorrise normalmente, e disse:
«Entrambi stiamo tirando un poco la verità, come direbbe il nostro amico Kickaha. Ma non troppo. È stato un grande combattimento. Rimpiango solo di avere dovuto combattere senza amici e senza armatura e in un luogo solitario dove nessuno saprà mai che un funem Laksfalk ha aggiunto gloria al suo nome. Anche se è stato contro un’orda di selvaggi nudi e urlanti.»
«Lo sapranno» disse Wolff. «Sarò io a dirlo, un giorno.»
Non gli stava dando delle false parole di conforto. Lui e il giudeo sapevano benissimo che la morte era dietro l’angolo, e fiutava la preda con ansia famelica.
«Sai cosa è accaduto a Kickaha?» domandò.
«Ah, quel demonio! Si è tolto le catene, una notte. Ha cercato di aprire anche le mie, ma non ce l’ha fatta. Poi se ne è andato, con la promessa di ritornare a liberarmi. E così farà, ma sarà troppo tardi.»
Wolff guardò giù dalla collina. Chryseis stava salendo, con diverse frecce recuperate dai cadaveri. I negri si erano radunati nella pianura, e stavano discutendo animatamente tra loro. Degli altri uscivano dalla giungla e si univano a loro. I nuovi arrivati erano circa quaranta. Erano guidati da un uomo abbigliato con penne multicolori, che portava una spaventosa maschera di legno. Agitava un bastone, e sembrava arringarli.
Il giudeo chiese a Wolff cosa stava accadendo. Wolff glielo disse. Il giudeo parlò con voce così fioca, che Wolff fu costretto a mettere l’orecchio quasi sulle iabbra del moribondo.
«Era il mio sogno più grande, barone Wolff, di combattere un giorno al tuo fianco. Ah, quale nobile coppia di cavalieri avremmo fatto, con le armature e agitando le nostre… S’iz kalt.»
Le labbra divennero mute e bluastre. Wolff si alzò, per guardare di nuovo alle pendici della collina. I selvaggi stavano salendo a raggera. Wolff si mise a raccogliere i cadaveri e ad ammucchiarli, per fare una trincea. L’unica speranza, una speranza assai debole, era di permettere il passaggio solo a uno o due uomini per volta. Se perdevano molte unità, potevano scoraggiarsi e decidersi ad andare via. Non ci credeva neppure lui, perché quei selvaggi mostravano una notevole pervicacia, malgrado quelle che pet loro avrebbero dovuto essere delle perdite notevolissime. Inoltre, potevano allontanarsi di quel tanto che bastava a prendere per fame e per sete Wolff e Chryseis, che prima o poi, in caso di assedio, avrebbero dovuto uscire dal loro rifugio.