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Poi si appoggiò alla bestia, le diede una grattatina dietro l’orecchio, e una pacca sul fianco. Quella specie di cervo lo leccò diverse volte con una lunga lingua umida, ruvida come quella di un leone. Le speranze di Wolff che la bestia si stancasse delle manifestazioni di affetto si avverarono in breve tempo. Se ne andò con uno scatto improvviso come quello che l’aveva fatta apparire.

Dopo la sua scomparsa, Wolff si sentì più sicuro. Un animale sarebbe stato così amichevole, con un essere del tutto sconosciuto, se ci fossero stati animali carnivori o cacciatori da temere?

Il ruggito della risacca divenne più forte. Nel giro di dieci minuti Wolff arrivò ai margini della spiaggia. Là si acquattò sotto un cespuglio enorme e ricco di fronde ed esaminò la scena illuminata dalla luna. La spiaggia era bianca e, tendendo la mano, scoprì che era fatta di sabbia finissima. Si perdeva in lontananza, da entrambe le parti, ed era ampia, tra la foresta e il mare, circa duecento metri. Da entrambe le parti, a una certa distanza, c’erano dei fuochi intorno ai quali si vedevano forme di uomini e donne. I loro scoppi di risa, le loro grida, sebbene trasformati dalla lontananza, rafforzarono la sua impressione di trovarsi di fronte a esseri umani.

Poi, si voltò a osservare la spiaggia che si stendeva davanti a lui. In un angolo, a circa trecento metri di distanza, quasi nell’acqua, c’erano due esseri. Quando li vide, gli si mozzò il respiro.

A colpirlo non fu quello che essi stavano facendo, ma la struttura dei loro corpi. Dalla cintola in su, l’uomo e la donna erano perfettamente umani, ma nel punto in cui avrebbero dovuto cominciare le gambe, iniziavano delle pinne.

Fu incapace di contenere la sua curiosità. Nascose il corno in un letto di erbe soffici come piume, e strisciò fino ai margini della giungla; quando fu davanti ai due, si fermò a guardare. Dato che il maschio e la femmina ora giacevano fianco a fianco, e parlavano, la loro posizione gli permise di studiarli in maniera più dettagliata. Si convinse del fatto che essi non avrebbero potuto assolutamente inseguirlo, sulla terraferma, e che non avevano armi. Poteva avvicinarli. Forse sarebbero stati amichevoli.

Quando fu a meno di venti metri dalla coppia, si fermò per studiarli di nuovo. Se erano un tritone e una sirena, non erano certo per metà pesci. Le pinne, al termine delle loro lunghe code, erano su un piano orizzontale, contrariamente a quelle dei pesci, che sono verticali. E sembrava che sulla coda non ci fossero scaglie. I loro corpi ibridi erano coperti di pelle bruna e liscia dalla testa alle pinne.

Tossì. I due sollevarono lo sguardo, e il maschio gridò e la femmina strillò. Con rapidità incredibile si sollevarono sulle loro code, fecero un balzo e si tuffarono in acqua. La luna illuminò brevemente una testa bruna che si sollevava dalle acque e una coda che si agitava.

Le onde rotolavano e si frangevano sulla sabbia bianca. La luna era immensa e verde e splendente. Un venticello spirava dal mare e accarezzava il suo volto sudato e andava a rinfrescare l’aria della giungla. Dall’oscurità alle sue spalle uscivano rare grida spettrali, e di lontano, lungo la spiaggia, veniva il suono di allegre grida umane.

Per qualche tempo, restò immerso nei suoi pensieri. La parlata delle due creature marine aveva avuto qualcosa di familiare, come quello dello zebrilla (così aveva battezzato il gorilla) e della donna. Non aveva riconosciuto nessuna parola, separatamente, ma i suoni e le combinazioni fonetiche avevano risvegliato qualcosa, nella sua memoria. Ma cosa? Certo, quelle creature non parlavano nessuna lingua che lui avesse mai sentito. Era forse simile a una delle lingue vive della Terra, che lui magari aveva ascoltato in un disco o al cinema?

Una mano gli strinse la spalla, lo sollevò e lo fece girare su se stesso. Il muso minaccioso e gli occhi cavernosi di uno zebrilla erano rivolti su di lui, e un alito greve d’alcool gli giunse alle nari. Lo zebrilla parlò, e la donna uscì dai cespugli. Si avvicinò lentamente, e lui, in un altro momento, avrebbe trattenuto il respiro di fronte a quel corpo stupendo e a quel volto meraviglioso. Disgraziatamente, in quel momento tratteneva il respiro per un altro motivo. Lo zebrilla avrebbe potuto scaraventarlo in mare, da un momento all’altro, con la massima facilità. Oppure, quella mano gigantesca avrebbe potuto stringerlo, riducendolo un ammasso di ossa fracassate e di carne sanguinante.

La donna disse qualcosa, e lo zebrilla rispose. Fu allora che Wolff comprese diverse parole. La loro lingua era simile al greco preomerico, al miceneo.

Non cominciò subito a parlare per rassicurarli sulle sue buone intenzioni e sulla sua mancanza di mezzi di offesa. Per prima cosa, era troppo stordito per riuscire a schiarire le idee. E poi, la sua conoscenza del greco di quel periodo era forzatamente limitata, anche se era abbastanza vicino a quello di Omero.

Finalmente, riuscì a pronunciare qualche frase inappropriata, ma a lui non interessava tanto la proprietà del linguaggio, quanto il fare comprendere chiaramente che non aveva cattive intenzioni. Udendolo, lo zebrilla disse qualcosa alla fanciulla, e posò sulla sabbia Wolff. Lui sospirò di sollievo, ma il dolore alla spalla lo richiamò subito alla realtà. L’enorme mano del mostro era incredibilmente forte. A parte le dimensioni e il folto pelo, la mano era perfettamente umana.

La donna strinse tra le dita un lembo della sua camicia. Il suo volto rifletteva un vago disgusto: più tardi Wolff avrebbe scoperto che le faceva schifo. Lei non aveva mai visto un uomo grasso prima di allora. Inoltre, i vestiti la sconcertavano. Continuò a tirare il lembo della camicia. Piuttosto che farsela togliere dallo zebrilla, dietro richiesta della fanciulla, Wolff preferì togliersela da solo. Lei la guardò con curiosità, la fiutò, disse: «Ugh!» e poi fece dei gesti.

Sebbene lui avesse preferito non capire, e non avesse avuto la minima intenzione di obbedire, decise di non opporsi. Non c’era ragione alcuna di deluderla, e magari di provocare l’ira dello zebrilla. Si tolse i vestiti, e aspettò altri ordini. La donna emise una risata acuta; lo zebrilla squittì e colpì la coscia di Wolff con la sua enorme mano, e parve che un’ascia stesse tagliando un tronco d’albero. Donna e zebrilla si abbracciarono strettamente e, ridendo istericamente, si avviarono allacciati insieme lungo la spiaggia.

Infuriato, umiliato, vergognoso, ma pure lieto di essersela cavata senza danni, Wolff tornò a infilarsi i calzoni. Raccolse la canottiera, le calze e le scarpe, e trotterellò sulla sabbia fino a raggiungere la giungla. Riprese il corno dal nascondiglio, chiedendosi cosa avrebbe dovuto fare e, finalmente, si addormentò.

Si svegliò al mattino, coi muscoli doloranti, affamato e assetato. La spiaggia brulicava di vita. Oltre i tritoni e le sirene che aveva visto la notte prima, diverse grosse foche dal mantello arancione correvano avanti e indietro, sulla sabbia, inseguendo grosse palle che venivano gettate da sirene e tritoni, e un uomo con corna caprine che gli spuntavano sulla fronte, gambe pelose e una corta coda caprina, inseguiva una donna che somigliava molto a quella che lui aveva visto con lo zebrilla. Questa, comunque, aveva i capelli biondi. Continuò a correre finché l’uomo con le corna non balzò su di lei e la fece cadere, ridendo, sulla sabbia. Quello che poi seguì gli dimostrò che quelle creature erano innocenti da qualsiasi senso del peccato, e prive di inibizioni, come dovevano esserlo stati Adamo ed Eva.