Chiese a diversi rappresentanti del popolo della spiaggia qualcosa sulla loro giovinezza apparentemente eterna. Avevano tutti una sola risposta:
«È il volere del Signore.»
Dapprima, pensò che parlassero del Creatore, e questo gli parve strano. Per quanto ne sapeva, non avevano religione. Certo, nessuna religione con un culto organizzato, riti e sacramenti.
«Chi è il Signore?» domandava. Pensava che, forse, poteva essersi sbagliato sul significato della loro parola, wanaks, che forse aveva un significato lievemente diverso da quello inteso da Omero.
Ipsewas, lo zebrilla, il maschio più intelligente che avesse finora conosciuto, rispose:
«Vive sulla cima del mondo, oltre Okeanos.»
Ipsewas indicò un punto al di là del mare, in alto, verso la catena montuosa che sorgeva dall’altra parte.
«Il Signore vive in un palazzo stupendo e inespugnabile sulla cima del mondo. Fu lui che creò questo mondo e noi. Noi facciamo quello che ci dice il Signore e giochiamo con lui. Ma siamo sempre spaventati. Se lui si infuria, o se è deluso, può ucciderci. O peggio.»
Wolff sorrise e annuì. Così Ipsewas e gli altri non avevano spiegazioni, sulla propria origine e sull’origine del loro mondo, più razionali di quelle che la gente della Terra possedesse. Ma il popolo della spiaggia possedeva qualcosa che i terrestri non avevano. L’uniformità di opinioni. Tutti coloro ai quali rivolse la sua domanda, gli diedero la stessa risposta dello zebrilla.
«È il volere del Signore. Lui ha creato il mondo e tutti noi.»
«Come lo sapete?» domandò Wolff. Non si aspettava più di quanto non avrebbe ottenuto sulla Terra, formulando la medesima domanda. Ma rimase sorpreso.
«Oh!» rispose una sirena, Paiawa. «Ce lo ha detto il Signore. E poi, me l’ha detto anche mia madre. Lei doveva saperlo: il Signore ha fabbricato il suo corpo; lei si ricorda di quando lo fece, sebbene questo sia accaduto tanto, tanto tempo fa.»
«Davvero?» disse Wolff, domandandosi se lo stesse prendendo in giro o no, e pensando che sarebbe stato difficile controbattere con le sue stesse armi. «E dov’è tua madre? Mi piacerebbe parlarle.»
Paiawa indicò l’occidente.
«Laggiù, da qualche parte.»
«Da qualche parte» poteva anche trovarsi a migliaia di chilometri di distanza, dato che lui non aveva la minima idea dell’estensione della spiaggia.
«Non la vedo da molto tempo» aggiunse Paiawa.
«Da quanto?»
Paiawa batté le sue lunghe ciglia, e strinse le labbra. Labbra da baciare, pensò Wolff. E quel corpo! Il ritorno della giovinezza stava riportando un pungente desiderio sessuale.
Paiawa gli sorrise e disse:
«Tu stai davvero mostrando interesse per me, vero?»
Lui arrossì, e avrebbe voluto andarsene, ma voleva una risposta alle sue domande.
«Da quanti anni non vedi tua madre?» domandò di nuovo.
Paiawa non fu in grado di rispondere. La parola «anno» non era nel suo vocabolario.
Lui si strinse nelle spalle e si allontanò in fretta, per scomparire dietro le foglie dai colori violentissimi che racchiudevano la spiaggia. Lei lo chiamò, dapprima mollemente, poi, quando si rese conto che lui non si sarebbe voltato, con rabbia. Formulò alcune osservazioni pungenti, paragonandolo agli altri maschi. Lui non discusse con lei… sarebbe stato indecoroso, e poi, quanto lei diceva era vero. Anche se il suo corpo stava rapidamente riguadagnando forza e gioventù, era ancora imperfetto in confronto ai superbi esemplari che lo circondavano.
Lasciò perdere questi pensieri, e cercò di riflettere sulle parole di Paiawa. Se fosse riuscito a trovare sua madre, o una delle contemporanee di sua madre, avrebbe potuto scoprire qualcosa di più sul Signore. Non intendeva dubitare della storia di Paiawa, che avrebbe potuto sembrare incredibile sulla Terra. Quella gente non era capace di mentire. Le storie fantasiose, per loro, erano ancora più inconsuete. Questa sincerità aveva i suoi vantaggi, ma significava anche una limitazione nell’immaginazione e nel senso dell’umorismo. Ridevano spesso, ma di cose ovvie e banali. Tutto il loro senso comico era basato su fatti semplici ed evidenti. La loro comicità era grossolana, fatta di burle.
Imprecò, perché trovava difficile seguire il filo logico del suo ragionamento. Trovava difficile concentrarsi, sempre di più ad ogni giorno che passava. Dunque, a che cosa stava pensando quando aveva cominciato a meditare sui difetti della società locale? Ah, sì, la madre di Paiawa! Alcuni, tra i più anziani, sarebbero stati in grado di illuminarlo… se fosse riuscito a trovarli. Come poteva identificarli, se tutti gli adulti parevano della stessa età? C’erano pochissimi bambini, forse tre tra le diverse centinaia di esseri che aveva finora incontrato. Inoltre, tra gli uccelli e gli animali (alcuni piuttosto strani, e comunque, numerosissimi) solo una mezza dozzina non erano adulti.
Se c’erano poche nascite, l’equilibrio era mantenuto dall’assenza di morti. Aveva visto tre animali morti, due uccisi incidentalmente, e il terzo rimasto vittima di un duello per una femmina. Anche quello era stato un incidente, perché il maschio sconfitto, un’antilope color limone con quattro corna curvate a forma di otto, si era voltata per fuggire e si era rotta l’osso del collo saltando un tronco d’albero.
La carne dell’animale morto non aveva avuto la minima possibilità di imputridirsi e puzzare. Diverse creature onnipresenti, che somigliavano a piccole volpi bipedi dal naso bianco, dalle lunghe orecchie pendenti, e dalle zampe di scimmia, avevano mangiato il cadavere nel giro di un’ora. Le volpi pattugliavano la giungla e individuavano qualsiasi cosa… frutti, noci, bacche, cadaveri. Avevano il gusto del marcio; ignoravano la frutta fresca, e sceglievano quella avariata. Ma non rappresentavano una nota sgradevole nella sinfonia della bellezza e della vita. Anche ne! Giardino dell’Eden, i raccoglitori di rifiuti erano necessari.
A volte Wolff guardava oltre l’oceano azzurro, dalla bianca spuma, verso la catena montuosa, chiamata Thayaphayawoed. Forse il Signore viveva lassù. Forse valeva la pena di tentare di attraversare l’oceano, e poi di scalare quella montagna, nella speranza che alcuni dei misteri di quell’universo venissero svelati.
Ma più tentava di valutare l’altezza della Thayaphayawoed, meno riusciva ad averne un’idea, seppur vaga. Le cime oscure si levavano sempre più in alto, fino a che l’occhio non si stancava e la mente arretrava, confusa. Nessun uomo avrebbe potuto vivere lassù in cima, perché non ci sarebbe stata aria da respirare.
CAPITOLO III
Un giorno Robert Wolff tolse il corno d’argento dal suo nascondiglio nel cavo di un albero. Attraverso la foresta, si diresse verso il macigno dal quale l’uomo che si era definito Kickaha gli aveva gettato il corno. Kickaha e le orribili creature erano scomparsi, come se non fossero mai esistiti, e nessuno di coloro ai quali aveva rivolto domande li aveva mai visti né mai aveva sentito parlare di loro. Aveva deciso di ritornare nel suo mondo di origine, e di provare a vivere laggiù. Se avesse deciso che i suoi vantaggi erano superiori a quelli del pianeta Giardino dell’Eden, sarebbe rimasto là. O, forse, avrebbe potuto viaggiare avanti e indietro, traendo così il meglio da entrambi. Quando si fosse stancato di uno, avrebbe passato un periodo di vacanza nell’altro.
Lungo la strada, si fermò un momento per accettare l’invito di Elikopis a bere qualcosa e parlare. Elikopis, il cui nome significava «Occhi splendenti», era una stupenda e formosa driade. Era più vicina alla «normalità» di qualsiasi altra creatura lui avesse incontrato fino a quel momento. Se i suoi capelli non fossero stati purpurei, avrebbe, vestita nel modo adatto, attirato sulla Terra l’attenzione riservata alle femmine dall’aspetto più leggiadro.