Inoltre, era una delle poche capaci di affrontare una conversazione degna di essere portata fino in fondo. Non aveva della conversazione il concetto comune di chiacchierare allegramente e di ridere forte senza ragione e di ignorare le parole di coloro che avrebbero dovuto parlarle. Wolff era rimasto deluso e disgustato, scoprendo che quasi tutti gli abitanti della foresta e della spiaggia si dedicavano ai monologhi, per quanto sembrasse intensa la conversazione, e per quanto sembrassero adoratori dello spirito di gruppo.
Elikopis era diversa, forse perché non apparteneva a nessun «gruppo», sebbene fosse più che probabile che la causa fosse esattamente l’inverso. In quel mondo davanti al mare, che mancava perfino della tecnologia degli aborigeni australiani (e non ne aveva neppure la necessità), si era sviluppato un sistema alquanto complesso di relazioni sociali. Ogni gruppo aveva territori di spiaggia e di foresta ben definiti, con livelli di prestigio interni. Erano in grado di recitare nei particolari (e amavano farlo) la propria posizione rispetto ad ogni altro individuo del gruppo, che di solito si componeva di circa trenta individui. Potevano e volevano recitare le discussioni, le riconciliazioni, i difetti e le virtù, la forza atletica o la sua mancanza, l’abilità nei loro svariati giochi infantili, e valutare le virtù sessuali di ciascuno.
Elikopis aveva un senso dell’umorismo vivido come i suoi occhi, ma possedeva anche una certa sensibilità. Quel giorno aveva un ulteriore motivo di attrazione, uno specchio di vetro incastonato in un cerchio d’oro tempestato di diamanti. Era uno dei pochissimi manufatti che Wolff avesse visto fino a quel momento.
«Dove l’hai preso?» domandò lui.
«Oh, me l’ha dato il Signore» rispose Elikopis. «Una volta, molto tempo fa, ero una delle sue favorite. Quando scendeva dalla cima del mondo per visitarci, passava molto del suo tempo con me. Chryseis e io eravamo quelle che lui preferiva. Ci crederesti? Le altre ci odiano ancora per questo. Ecco perché sono così sola… non che il restare con gli altri valga molto.»
«E che aspetto aveva il Signore?»
Lei rise e disse:
«Dal collo in giù, aveva l’aspetto di qualsiasi uomo alto e ben fatto, come te.»
Lei gli circondò il collo col braccio, e cominciò a baciarlo sulla guancia, lentamente dirigendosi verso l’orecchio.
«Il suo volto?» chiese Wolff.
«Non lo conosco. Potevo toccarlo, ma non vederlo. Un alone di luce si sprigionava da esso e mi accecava. Quando si avvicinava a me, dovevo chiudere gli occhi, tanto era forte.»
Lei gli chiuse le labbra coi suoi baci, e dopo qualche istante Wolff dimenticò le sue domande. Ma quando lei fu sdraiata accanto a lui, sonnolenta, sull’erba soffice, lui prese lo specchio e lo guardò. Il suo cuore fu pervaso dalla felicità. Aveva l’aspetto dei suoi venticinque anni. Lo aveva saputo, ma non se ne era reso conto appieno, fino a quel momento.
«E se ritorno sulla Terra, invecchierò con la stessa rapidità con la quale ho riguadagnato la mia gioventù?»
Si alzò, e rimase in piedi immobile, per qualche tempo, immerso nei suoi pensieri. Poi disse:
«Ma chi voglio ingannare? Non tornerò indietro.»
«Se adesso mi lasci» disse Elikopis, languidamente, «cerca Chryseis. Le è accaduto qualcosa: fugge ogni volta che qualcuno le si avvicina. Anch’io, la sua unica amica, non posso avvicinarla. Le è accaduto qualcosa di spaventoso, qualcosa di cui non vuole parlare. Ti piacerà. Non è come le altre; è come me.»
«Benissimo» rispose con aria assente Wolff. «Lo farò.»
Camminò, finché non si trovò solo. Anche se non intendeva servirsi del passaggio dal quale era giunto, voleva fare degli esperimenti col corno. Forse c’erano degli altri passaggi. Era possibile che, in qualsiasi punto si suonasse il corno, venisse aperto un passaggio.
L’albero sotto il quale si era fermato era una delle numerose cornucopie. Era alto sessanta metri, aveva uno spessore di dieci, una corteccia azzurrina, liscia, levigata, e rami grossi come la sua coscia e lunghi venti metri. I rami erano privi di foglie e di germogli. Alla fine di ciascun ramo si trovava un fiore dal calice coriaceo, lungo due metri e mezzo, e dell’esatta forma di una cornucopia.
Dalle cornucopie scendevano, a intervalli regolari, flussi di una sostanza simile alla cioccolata. La sostanza aveva il sapore del miele, con un leggero sentore di tabacco… un miscuglio strano, che però gli piaceva moltissimo. Ogni creatura della foresta ne mangiava.
Sotto l’albero della cornucopia, soffiò nel corno. Non apparve nessun «passaggio». Cercò ancora, a cento metri di distanza, ma senza successo. Così, decise, il corno funzionava soltanto in certe zone, forse soltanto in quel luogo vicino al macigno a forma di fungo.
Allora scorse la testa della fanciulla che si era affacciata tra le fronde quando il passaggio si era aperto per la prima volta. Aveva sempre quel volto a forma di cuore, gli occhi immensi, le labbra piene e scarlatte, e i lunghi capelli tigrati.
Lui la salutò, ma lei fuggì. Il suo corpo era stupendo: le sue gambe erano le più lunghe, in proporzione al corpo, che mai avesse visto in una donna. Inoltre, era più snella delle altre femmine di quel mondo, dai fianchi troppo abbondanti, dalle curve troppo evidenti e dai seni troppo pieni.
Wolff la seguì, di corsa. La ragazza si voltò un istante, emise un grido di disperazione, e continuò a correre. Allora lui fu sul punto di fermarsi, perché nessuno degli indigeni aveva avuto reazioni del genere. Una ritrosia iniziale, sì, ma non panico completo e fuga disperata.
La ragazza corse fino a che le forze l’aiutarono. Singhiozzando, respirando affannosamente, si appoggiò a un piccolo macigno coperto di muschio, vicino a una cascata. Era circondata da fiori gialli, a forma di punto interrogativo, che le arrivavano alla coscia. Un uccello dagli occhi di civetta, dalle penne dritte e dalle lunghe zampe ricurve era appollaiato in cima al macigno, e li fissava. Emise dei deboli squittii.
«Non avere paura di me. Non ti farò del male. Voglio soltanto parlarti.»
La fanciulla indicò con un dito tremante il corno. Con voce malferma, domandò:
«Dove l’hai preso?»
«L’ho avuto da un uomo che ha detto di chiamarsi Kickaha. Tu l’hai visto. Lo conosci?»
Gli occhi enormi della fanciulla erano color acquamarina; Wolff li giudicò gli occhi più belli che mai avesse visto. Questo malgrado, o forse a causa, delle pupille feline.
Lei scosse il capo:
«No! Non lo conosco. L’ho visto per la prima volta quando quelle…» deglutì e impallidì e sembrò sul punto di vomitare «… cose lo hanno respinto fino al macigno. E ho visto che lo trascinavano via dal macigno.»
«Allora non è stato finito?» domandò Wolff. Non disse ucciso o morto o assassinato, perché si trattava di parole tabù.
«No! Forse quelle cose volevano fargli qualcosa di peggio che… finirlo?»
«Perché sei fuggita da me?» domandò Wolff. «Io non sono una di quelle cose.»
«Io… non posso parlarne.»
Wolff meditò sulla sua riluttanza a parlare di cose sgradevoli. Quella gente aveva così pochi fenomeni sgradevoli o repellenti nella vita, che non era in grado di affrontare neppure quelli. Era condizionata completamente al bello e al facile.
«Non mi importa che tu voglia parlarne o meno» disse luì. «Devi farlo. È molto importante.»
Lei voltò il capo.
«No!»
«Da che parte sono andati?»
«Chi?»
«Quei mostri. E Kickaha.»
«Ho sentito che lui li chiamava gworl» disse lei. «Non ho mai sentito prima questa parola. Loro… i gworl… devono venire da… qualche altro posto.» Indicò un punto in alto, verso il mare. «Devono venire dalla montagna. Di lassù, da qualche parte.»