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Jack Vance

Il Faleno lunare

The Moon Moth

Traduzione di Franco Giambalvo

La casa galleggiante era stata costruita secondo le più precise regole dei cantieri sirenesi, vale a dire in modo tale che un occhio umano non potesse discernere imperfezioni. Il tavolato di cereo legno scuro non mostrava giunzioni; i collegamenti erano stati fatti con rivetti di platino svasati e piallati. Lo stile della nave era massiccio, molto luminoso, robusto come la stessa terraferma, privo di pesantezze o di eccessiva leggerezza. La prua si gonfiava come il petto di un cigno, l’albero saliva altissimo, poi si incurvava a formare il supporto per una lanterna di ferro. Le porte erano state scolpite da tronchi di un legno nero-verde screziati; le finestre erano fatte a sezioni, invetriate con quadrati di mica, di colore rosa, azzurro, verde chiaro e violetto. La prua conteneva i servizi e gli alloggi per gli schiavi; in mezzo alla nave c’erano un paio di cabine da letto, una sala da pranzo e un salone, che si apriva su un ponte-osservatorio sulla poppa.

Questa era la casa galleggiante di Edwer Thissell, ma per il proprietario non costituiva né piacere né orgoglio. La casa galleggiante era diventata vecchia. I tappeti avevano perso il pelo; i paraventi scolpiti si erano tutti scheggiati; la lanterna di ferro sulla prua era appesantita dalla ruggine. Settant’anni prima il primo proprietario, accettando la nave, aveva reso onore al costruttore ed era stato parimenti onorato; la transazione (la cosa infatti rappresentava assai più che un semplice dare e avere) aveva aumentato il prestigio di entrambi. Quei tempi erano assai lontani; la casa galleggiante adesso non dava più prestigio a nessuno. Edwer Thissell, residente su Sirene da soli tre mesi, si rendeva conto della cosa, ma non ci si poteva fare niente: questa casa galleggiante era il meglio che lui potesse trovare.

Stava seduto sul ponte posteriore esercitandosi col ganga, uno strumento simile alla cetra, ma non molto più grande della sua mano. Un centinaio di metri verso la riva, la schiuma delineava una striscia di spiaggia bianca; dietro si alzava la giungla, con i contorni di nere colline rocciose che si stagliavano nel cielo. In alto brillava Mirella, bianca e nebbiosa, come se vista attraverso il garbuglio di una ragnatela; il volto dell’oceano si univa e si rimescolava con la lucentezza della madreperla. La scena era diventata familiare, anche se non così noiosa, come il ganga a cui l’uomo aveva dedicato due ore strimpellando le scale sirenesi, formando accordi, modulando semplici progressioni. Adesso posò il ganga e prese lo zacinko, una scatola musicale piena di tasti che si suonava con la mano destra. Premendo i tasti si faceva passare l’aria attraverso dei pettini posti nei tasti stessi, che producevano un suono di accordeon. Thissell eseguì una dozzina di veloci scale, facendo pochissimi errori. Dei sei strumenti che egli doveva imparare, lo zacinko era quello che gli era risultato meno antipatico (a eccezione, si capisce, dell’himerkin, lo strumento che emetteva schiocchi, sbattimenti e fracasso, fatto di legno e pietra e usato esclusivamente con gli schiavi).

Thissell si esercitò altri dieci minuti, poi mise via lo zacinko. Piegò le braccia e fece schioccare le dita doloranti. Ogni attimo che era stato sveglio, da quando era arrivato, era stato dedicato agli strumenti: l’himerkin, il ganga, lo zacinko, il kiv, lo strapan, il gomapardo. Si era esercitato a eseguire scale su diciannove chiavi e quattro modi, innumerevoli accordi, intervalli mai immaginati sui Pianeti Patria. Trilli, arpeggi, legature, pause armoniche e nasalizzazioni; smorzamenti e aumenti dei soprattoni; vibrati e dissonanze; concavità e convessità. Si esercitava con diligenza incredibile, lavorando come un cane, per cui il suo originale concetto della musica, come fonte di piacere, era da tempo andato perduto. Osservando gli strumenti, Thissell dovette resistere al desiderio di scaraventarli tutti e sei nel Titanico.

Si alzò in piedi, attraversò il salone, la sala da pranzo, entrò in un corridoio che attraversava la cambusa e uscì sul ponte anteriore. Si piegò oltre la balaustra, scrutò nei recinti sottomarini, dove i due schiavi, Toby e Rex, stavano bardando i pesci da traino per il viaggio settimanale a Fan, quattordici chilometri più a nord. Il pesce più giovane, o perché voleva giocare, o perché era bizzoso, si tuffava e saltava. Il suo nero muso fluente sbucò fuori dall’acqua e Thissell, fissandolo negli occhi, provò uno strano disagio: il pesce non indossava alcuna maschera!

Thissell rise, sulle spine, passandosi le dita sulla maschera che egli indossava: il Faleno Lunare. Non c’erano dubbi, cominciava ad adattarsi a Sirene! Era stata raggiunta una tappa significativa nel momento in cui la faccia nuda del pesce gli aveva provocato disgusto!

Finalmente i pesci furono bardati; Toby e Rex si arrampicarono a bordo, coi rossi corpi luccicanti e le nere maschere di stoffa attaccate ai volti. Ignorando Thissell, essi stivarono il recinto e alzarono le àncore. I pesci da traino si allungarono, i tiranti si tesero, e la casa galleggiante si mosse verso nord.

Tornato sul ponte posteriore, Thissell prese lo strapan: una scatola musicale tonda, del diametro di venti centimetri. Da un mozzo centrale si dipartivano quarantasei corde che si innestavano sulla circonferenza a un campanello o a una barra tintinnante. Quando si pizzicava, le campanelle suonavano o le barre scampanellavano; se le corde venivano strimpellate tutte assieme, lo strumento dava un suono di chitarra tintinnante. Se era suonato con abilità, le piacevoli dissonanze acide producevano un effetto molto espressivo; una mano inesperta dava risultati meno felici e poteva anche ottenere dei rumori qualsiasi. Lo strapan era il punto debole di Thissell ed egli si esercitò con costanza durante tutto il viaggio verso il nord.

Dopo qualche tempo, la casa galleggiante accostò alla città galleggiante.

I pesci da traino furono trattenuti, la casa fu fissata agli ormeggi. Sul molo una fila di oziosi ponderava e valutava ogni aspetto della casa galleggiante, degli schiavi e dello stesso Thissell, secondo gli usi sirenesi. Thissell, non ancora abituato a un’ispezione così penetrante, trovava sconvolgente l’esame, soprattutto per la completa immobilità delle maschere. Di proposito si sistemò meglio il suo Faleno Lunare e scese la scaletta verso il molo.

Uno schiavo si sollevò nel punto dove era rimasto accovacciato, passò le nocche sul nero tessuto che portava sulla fronte e cantò una frase interrogativa su tre toni:

— Forse il Faleno Lunare che mi sta di fronte esprime la persona di Ser Edwer Thissell?

Thissell picchiò sull’himerkin che portava appeso alla cintura e cantò:

— Sono Ser Thissell.

— Sono stato onorato di una missione — cantò lo schiavo. — Ho atteso sul molo tre giorni, dall’alba all’imbrunire; tre notti dall’imbrunire all’alba, sono rimasto accoccolato su una zattera sotto questo stesso molo ad ascoltare i passi degli Uomini-notte. Finalmente ho scorto la maschera di Ser Thissell.

Thissell evocò un impaziente acciottolio dall’himerkin. — Qual è la natura di questa missione?

— Reco un messaggio, Ser Thissell. È rivolto a lei.

Thissell porse la mano sinistra, suonando l’himerkin con la destra.

— Dammi il messaggio.

— All’istante, Ser Thissell.

Il messaggio recava una pesante intestazione:

COMUNICAZIONE D’EMERGENZA! PRECIPITARSI!

Thissell strappò la busta. Il messaggio era firmato da Castel Cromartin, Capo Amministrativo dell’Ufficio Diplomatico Intermondiale. Dopo i saluti di prammatica si leggeva: