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Il sole era sceso, la giornata era diventata grigia e fredda. Pareva addirittura che dovesse nevicare. Passai davanti al Latte Lenya ed entrai al Fashion Front per scaldarmi e per scoprire quale fosse il colore rosa postmoderno.

Le mode riguardanti i colori di solito sono il risultato di una conquista tecnologica. Malva e turchese, i colori in voga nel 1870, furono lanciati da una conquista scientifica nella fabbricazione delle tinture. Lo stesso vale per i colori Day-Glo degli anni Sessanta. E per i nuovi colori delle auto, marrone metallizzato e verde smeraldo.

Il fatto che i colori nuovi siano pochi e molto intervallati nel tempo, però, non ha mai fermato gli stilisti. Costoro si limitano a dare un nuovo nome a un vecchio colore. Come il “rosa shocking” di Schiaparelli negli anni Venti e il “beige” di Chanel per quella che fino allora era stata una indefinibile sfumatura di marrone. Oppure danno al colore il nome di qualcuno, che lo porti o no, come il blu Vittoria, il verde Vittoria, il rosso Vittoria e il sempre popolare (e molto più logico) nero Vittoria.

La commessa del Fashion Front parlava al telefono con il suo ragazzo e si esaminava le doppie punte.

— Avete rosa postmoderno? — domandai.

— Sì! — rispose la commessa, in tono bellicoso, e tornò a parlare al telefono. — Ho una cliente. A dopo! — disse. Sbatté sul banco la cornetta e con andatura dinoccolata si avvicinò agli scaffali.

È una moda, pensai seguendola: Flip è una moda.

La commessa passò davanti a un bancone pieno di felpe ispirate agli angeli, offerte con uno sconto del 75%, e indicò lo scaffale. — Eccolo — disse, roteando gli occhi. — Rosa po-mo. Non postmoderno.

— Dovrebbe essere il colore di gran moda per l’autunno.

— Assolutamente — disse lei e tornò al telefono, mentre io esaminavo “il nuovo colore più sensazionale che si sia visto dagli anni Sessanta”.

Non era nuovo. Si chiamava “rosa cenere” la prima volta, intorno al 1928, e “rosa tortora” la seconda volta, nel 1954.

In tutt’e due i casi era stato un rosa sgradevole, grigiastro, che faceva sembrare slavati carnagione e capelli, difetto che non ne aveva evitato l’enorme popolarità. E senza dubbio avrebbe avuto ancora enorme popolarità nell’attuale incarnazione “rosa postmoderno”.

Il nome non era bello come “rosa cenere”, ma non è necessario che i nomi, per essere alla moda, siano allettanti. Per esempio, “pulce”, il vincente del 1776. Il massimo alla corte di Luigi XVI era stato, non scherzo, il color pulce. E non pulce e basta. Era stato così popolare da originare una serie di sfumature appetitose: pulce giovane, pulce vecchia, pancia-di-pulce, coscia-di-pulce e pulce-con-febbre-da-latte.

Comprai un metro di nastro rosa postmoderno da portare in laboratorio: ciò significava che la commessa avrebbe dovuto staccarsi dal telefono di nuovo.

— Quello è per le treccine — disse, guardando con disapprovazione i miei capelli corti, e sbagliò a darmi il resto.

— Le piace il rosa postmoderno? — domandai.

La commessa sospirò. — È il colore che la farà da padrone questo autunno.

Naturalmente. E in quel “padrone” c’era il segreto di tutte le mode: l’istinto gregario. Le persone volevano avere lo stesso aspetto di tutti gli altri. Per questo compravano calzoni di pelle scamosciata bianca e brache a metà polpaccio e bikini. Ma qualcuna doveva pur essere la prima a portare zatteroni, a tagliarsi i capelli alla maschietta… e questo richiedeva l’opposto dell’istinto gregario.

Misi nella borsa a tracolla (molto passé) il resto sbagliato e il nastro e tornai fuori nel Mall. Ormai piovigginava e i suonatori ambulanti rabbrividivano, in Birkenstock e camicie Ecuador. Mi infilai le muffole (completamente zarre!) e tornai verso la biblioteca, guardando i negozi yuppie e i banchetti per la vendita di ciambelle di pane ebraico e sentendomi sempre più depressa. Non avevo idea da dove provenisse una sola di quelle mode, nemmeno il rosa postmoderno, che qualche stilista aveva appena inventato. Ma quello stilista non poteva costringere la gente a comprare il rosa postmoderno, non poteva costringere nessuno a indossarlo e a fare battute su quel colore e a scrivere editoriali sull’argomento “Dove va la moda?”.

Gli stilisti potevano renderlo popolare durante questa stagione, soprattutto perché nessuno sarebbe riuscito a trovare qualcosa d’altro nei magazzini, ma non potevano farlo diventare una moda. Nel 1971 avevano provato a introdurre la gonna midi lunga a metà polpaccio, fallendo completamente, e da anni prevedevano il “ritorno del cappellino”, senza risultati. Per creare una moda occorreva ben altro che la commercializzazione, e io non avevo idea di che cosa fosse.

E più accumulavo dati, più mi convincevo che lì non c’era la risposta, che l’accresciuta indipendenza e i pidocchi e la bicicletta erano semplici scuse escogitate a posteriori per spiegare una cosa che nessuno capiva. Soprattutto io.

Mi domandai addirittura se fossi nel campo giusto. Provavo una grande insoddisfazione, come se tutto ciò che facevo fosse inutile, un grande… prurito.

Flip, mi dissi. Era stata lei a condizionarmi, con le sue chiacchiere su Brine e i Groupthink. Era una sorta di anti-angelo custode che mi seguiva dappertutto, mi ostacolava anziché aiutarmi e mi metteva di cattivo umore. Non le avrei permesso di rovinarmi il weekend. Mi rovinava già abbastanza il resto della settimana.

Comprai un pezzo di cheesecake al cioccolato, tornai in biblioteca e presi in prestito Il segno rosso del coraggio, Com’era verde la mia valle e Il colore viola, ma il malumore persistette per tutto quel pomeriggio grigio e per tutto il gelido ritorno a casa, e non riuscii a lavorare.

Provai a leggere il libro sulla teoria del caos, ma il risultato fu che mi sentii ancora più depressa. I sistemi caotici avevano tante di quelle variabili da rendere quasi impossibile qualsiasi previsione sul loro comportamento anche se avessero funzionato in modo logico e diretto. Cosa che però non facevano.

Ogni variabile interagiva con tutte le altre, entrava in collisione e in collegamento in maniere inaspettate, stabiliva cicli d’iterazione che alimentavano e rialimentavano il sistema, incrociando e collegando le variabili in così tanti modi che non c’era da sorprendersi se una farfalla potesse avere davvero un effetto devastante. O nessun effetto.

Capivo perché il dottor O’Reilly voleva studiare un sistema con un numero limitato di variabili. Ma quanto limitato? Secondo il libro, qualsiasi cosa era una variabile: entropia, gravità, gli effetti quantici di un elettrone, una stella dall’altra parte dell’universo.

Perciò, anche se il dottor O’Reilly avesse avuto ragione e nel sistema non avesse operato nessun fattore X esterno, non c’era modo di calcolare tutte le variabili e neppure di stabilire quali erano.

La questione aveva una sconfortante rassomiglianza con le mode e mi indusse a domandarmi quali variabili non prendevo in considerazione; così, quando Billy Ray telefonò, mi aggrappai a lui come chi sta per affogare. — Sono davvero contenta di sentirti — dissi. — La mia ricerca è andata avanti più velocemente del previsto, perciò dopotutto sono libera. Dove ti trovi?

— Sulla strada per Bozeman. Avevi detto di essere occupata, così ho deciso di saltare il seminario e di andare a prendere quelle Targhee che mi interessavano. — Esitò, e sentii il ronzio rivelatore del cellulare. — Torno lunedì. Che ne dici di pranzare insieme un giorno della prossima settimana?

Volevo andare a cena stasera, pensai acidamente. — Magnifico. Chiamami quando torni.

Il ronzio aumentò. — Mi dispiace che non ci siamo incontra… — E fu fuori portata.