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Mi rispose un grugnito soffocato, che mi augurai non provenisse da un inquilino dello zoo. Diedi un’occhiata alla targa sulla porta. — Dottor O’Reilly?

— Sì? — mi rispose una voce maschile proveniente da sotto quello che pareva un impianto di riscaldamento ad aria.

Girai intorno a quell’affare e vidi che ne sporgevano calzoni di velluto a coste marrone, circondati da una confusione di utensili. — Ho un pacco per la dottoressa Turnbull — dissi rivolta alle gambe. — Non è in ufficio. Posso lasciarlo a lei?

— Lo posi pure — disse la voce, senza troppa pazienza.

Cercai dove posare la scatola… un posto che non fosse coperto di apparecchiature video e di matasse di cavetti.

— Non sulle apparecchiature — dissero bruscamente le gambe. — Per terra. Con cura.

Spinsi da parte una corda e due modem e posai a terra la scatola. Mi acquattai accanto alle gambe e dissi: — C’è scritto DEPERIBILE. Deve metterlo in frigo.

— Va bene! — disse l’uomo, brusco. Comparve un braccio lentigginoso in una manica di camicia gualcita; la mano tastò il pavimento intorno alla base del pacco.

Appena fuori portata delle dita c’era un rotolo di nastro adesivo. — Nastro adesivo? — dissi. Glielo passai.

La mano si chiuse intorno al rotolo e rimase lì.

— Non voleva il nastro? — Mi guardai intorno per scoprire che altro potesse cercare. — Pinze? Cacciavite Phillips?

Gambe e braccio sparirono sotto l’impianto di riscaldamento e da dietro emerse una testa. — Mi spiace — disse. Anche la faccia era lentigginosa e sul naso c’era un paio di occhiali dalle lenti spesse come il fondo di una bottiglia di Coca-Cola. — Pensavo che fosse quella tizia della posta.

— Flip — dissi. — No. Flip ha consegnato il pacco nel mio ufficio, per errore.

— Neanche a dirlo. — Uscì da sotto l’impianto di riscaldamento e si alzò. — Mi spiace davvero — disse, spolverandosi. — Di solito non sono così scortese con persone che cercano di consegnare qualcosa. Solo che quella Flip…

— Lo so, lo so — dissi, con un cenno di grande comprensione.

Si ravviò i capelli biondo-rossicci. — L’ultima volta che ha fatto una consegna ha posato il pacco sopra un monitor, che è caduto e ha rotto una videocamera.

— Tipico di Flip — dissi, ma in realtà non ascoltavo. Guardavo lui.

Se, come me, passate un mucchio di tempo ad analizzare le mode e le manie, poi le individuate a prima vista: hippie ecologico, patito del jogging, dottore in scienze commerciali di Wall Street, terrorista urbano. Il dottor O’Reilly non apparteneva a nessuna di queste categorie. Aveva all’incirca la mia età e la mia statura. Portava un camice da laboratorio e calzoni di velluto a coste che erano stati lavati così spesso che le coste erano completamente consumate sulle ginocchia. Si erano anche ristretti e la linea chiara sopra le caviglie rivelava che erano stati allungati.

L’insieme, in particolare le lenti a fondo di bottiglia, avrebbe dovuto produrre un effetto tipo scienziato pazzo, e invece no. Intanto, O’Reilly aveva le lentiggini. E poi calzava scarpe di tela originariamente bianche, sfondate in punta e mezzo scucite. Gli scienziati pazzi portano scarpe nere e calzini bianchi. O’Reilly non aveva neppure un salva-taschino, che invece gli sarebbe servito. Sul taschino del camice da laboratorio c’erano due macchie d’inchiostro di biro e una chiazza di Magic Marker; e una delle tasche applicate era scucita in fondo. E in lui c’era qualcos’altro, una cosa che non riuscivo a individuare e che mi rendeva impossibile classificarlo.

Lo fissai di sottecchi e cercai di stabilire di che cosa si trattasse; lo fissai tanto a lungo che lui mi guardò curiosamente.

— Ho portato il pacco nell’ufficio della dottoressa Tumbull — dissi in fretta — ma lei dev’essere già andata a casa.

— Oggi aveva un meeting sovvenzioni — disse lui. — È bravissima a procurarsele.

— La più importante qualità di uno scienziato, di questi tempi.

— Già. — Sorrise timidamente. — L’avessi io!

— Sandra Foster — mi presentai. Tesi la mano. — Sociologia.

Si ripulì la mano sui calzoni e strinse la mia. — Bennett O’Reilly.

Anche questo era bizzarro. Aveva la mia età. Si sarebbe dovuto chiamare Matt o Mike o, Dio ce ne scampi, Troy. Bennett, invece.

Lo fissai di nuovo. — Biologo? — domandai.

— Teoria del caos.

— Non è un ossimoro?

Rise. — Come ho fatto io, sì. Per questo ho perduto i finanziamenti per il mio progetto e sono venuto a lavorare alla HiTek.

Forse questo giustificava la sua bizzarria, e i calzoni di velluto a coste e le scarpe di tela erano ciò che i teorici del caos indossavano di questi tempi. No, il dottor Applegate, a Chimica, era sempre nel caos e si vestiva come ogni altro del dipartimento Ricerca e Sviluppo: camicia di flanella, berretto da baseball, jeans e Nike.

E quasi tutti alla HiTek lavoravano al di fuori del proprio campo. La scienza ha le sue mode e le sue manie, come qualsiasi altra cosa: teoria delle stringhe, eugenetica, mesmerismo. La teoria del caos era stata di gran moda per un paio d’anni, malgrado l’Utah e la fusione fredda o forse proprio per questo; ma l’una e l’altra erano state soppiantate dall’ingegneria genetica. Se voleva il denaro delle sovvenzioni, il dottor O’Reilly doveva mettere da parte il caos e progettare un esemplare migliorato di topo.

Si chinò sulla scatola. — Non ho un frigo — disse. — Dovrò metterla fuori, sulla veranda. — La raccolse e borbottò un poco. — Oddio, quanto pesa. Probabilmente Flip l’ha consegnata a lei apposta, per non doverla portare fin quaggiù. — La sollevò col ginocchio. — Bene, a nome della dottoressa Turnbull e di tutte le altre vittime di Flip, grazie. — Si avviò in mezzo alla confusione di apparecchiature.

Un chiaro segno di congedo; e poi, a proposito di sovvenzioni, avevo ancora metà dei ritagli sui capelli alla maschietta da suddividere in mucchi ordinati, prima di andare a casa. Ma cercavo ancora di individuare ciò che trovavo di così insolito in lui. Lo seguii nel labirinto di apparecchiature.

— Flip è responsabile anche di questo? — dissi, infilandomi fra due cataste di scatole.

— No — rispose O’Reilly. — Sto mettendo in atto il mio nuovo progetto. — Scavalcò una matassa di cavo.

— Ossia? — Scostai una rete di plastica penzolante.

— Diffusione delle informazioni. — Aprì una porta e uscì sulla veranda. — Qua fuori dovrebbe stare abbastanza al fresco.

— Ah, certo — dissi, stringendomi nelle braccia per difendermi dal gelido vento d’ottobre. La veranda dava su un ampio paddock cintato, con alte staccionate su tutti i lati e una copertura di rete metallica. In fondo c’era un cancello.

— Viene usato per esperimenti su animali di grossa taglia — disse il dottor O’Reilly. — Speravo di avere le scimmie per luglio, così avrebbero potuto stare fuori, ma le scartoffie hanno richiesto più tempo del previsto.

— Scimmie?

— Il mio progetto studia gli schemi di diffusione di informazioni in un gruppo di macachi. Si insegna una cosa a un macaco e poi si documenta come l’informazione si diffonde nel gruppo. Sto lavorando al rapporto fra destrezza utilitaristica e non utilitaristica. Insegno a un macaco una operazione non utilitaristica che presenti una bassa soglia di abilità e molteplici livelli di destrezza…

— Come l’hula-hoop — commentai.

O’Reilly posò la scatola accanto alla porta e si rialzò. — L’hula-hoop?

— L’hula-hoop, il minigolf, il twist. Tutte le mode hanno una bassa soglia di abilità. Per questo non vengono mai di moda le partite lampo a scacchi. E nemmeno la scherma.

O’Reilly spinse contro l’attaccatura del naso gli occhiali dalle lenti a fondo di bottiglia.