— Siete il culmine dell’evoluzione umana — dice con enfasi Clay. — Ma che cosa fate? Come riempite le migliaia, i milioni di anni che avete a disposizione? È sufficiente danzare? Quoi vi ha chiamati Sfioratori; penso che volesse dire che siete superficiali. Ha forse sbagliato nel giudicarvi? Cosa c’è in voi che possa differenziarvi dalle piante e dagli animali? Davvero la struttura della vostra vita è semplice come mi avete indotto a pensare?
Hanmer si volta. Appoggia le mani sulle spalle di Clay. I suoi occhi scarlatti sembrano tristi. — Noi tutti ti amiamo — dice. — Perché sei così agitato? Prendici come siamo.
Ninameen, Ti e gli altri Sfioratori sorgono intorno a Clay, vociando come bambini felici. Tutti, tranne Angelon, hanno forma maschile. Non ha difficoltà, questa volta, a riconoscerli. — Perché sei stato tanto tempo con il Respiratore? — chiede Serifice. E Bril chiede: — Sei arrabbiato con noi?
E Hanmer: — È preoccupato perché viviamo per sempre.
Serifice si incupisce. Le sue narici fremono, la bocca trema, nervosamente. Tocca un gomito di Clay e dice: — Spiega il concetto di morte.
— Perché dovrei spiegare qualcosa? Voi cosa spiegate a me?
— Ostilità! — grida Ti. — Belligeranza! — Sembra deliziata.
— No, veramente — dice dolcemente Serifice. — Voglio sapere. Questo migliorerà la situazione? — E cambia alla forma femminile. Serifice gli strofina il piccolo seno contro un fianco. — Parlami della morte — mormora, accarezzandogli il petto. Lui pensa alla ragazza bionda che ansima e si affanna mentre lui la inchioda sul letto della stanza nel motel, e non è per niente eccitato dalla grottesca creatura verde-dorata che gli si strofina contro. Occhi rossi e bulbosi. Giunture aliene. Volto piatto da pesce. Figlio di un uomo scomparso ormai da ere remote. — Morte — invita Serifice. — Aiutami a capire la morte.
— Tu hai visto la morte, qui — dice Clay, evitando le carezze di lei. — Lo sferoide… improvvisamente raggrinzito nella sua gabbia. Questa è la morte. La fine della vita. Cos’altro posso dire?
— È stata solo temporanea — obietta Serifice.
— Ma era morte, mentre si verificava. Se vuoi sapere qualcosa in proposito perché non interroghi lo sferoide?
— L’abbiamo fatto — dice Ti. — Non ha capito che cosa volevamo dire.
— Era andato — dice Angelon — e poi è tornato. Non potrebbe dirci altro in proposito.
— Né posso farlo io. Ascoltate: supponete che io prenda un pesce dall’acqua e lo mangi. Il pesce muore. Questa è morte. Finire di essere quello che si è. Non essere più consapevoli di quello che avviene in seguito.
— Un pesce non è molto consapevole neanche mentre vive — obietta Serifice.
Bril dice: — Con che frequenza muoiono quelli come voi?
— Una volta. Solo una volta. Quando ci si ferma, non si ricomincia più.
— È così che è sempre stato per tutti?
— Per tutti.
— Anche per te, allora?
— Io sono stato preso dal flusso del tempo prima di morire. Almeno, così penso. Per quello che posso dirvi, ero ancora vivo quando sono stato preso e sono giunto qui. Così, non sono molto esperto in fatto di morte.
— Ma hai visto altri morire — insiste Serifice.
— Qualche volta. Ma non è stato istruttivo. I loro occhi non vedevano più. I loro cuori non battevano più. Non respiravano, non pensavano, non si muovevano, e non parlavano. Non ho idea di quello che potessero sentire loro, né nel momento della morte né in quelli successivi.
— Non hai sentito la loro mancanza? — chiede Serificé.
— Be’, sì, se erano persone che conoscevo da vicino, o personalità famose, qualche artista, o medico, o statista che in qualche modo ha avuto una parte nella mia vita. Mi rendevo conto che mancava qualcosa. Ma milioni di estranei, di sconosciuti morivano ogni giorno, e senza destare alcuna emozione in quelli che sopravvivevano.
— Essi andavano fuori dal mondo. E coloro che non li seguivano ne sentivano naturalmente la mancanza. È così? — chiede Bril.
— No. Ascoltate, mi state chiedendo se eravamo tutti collegati, come lo sono i Respiratori, come suppongo siate voi, cosicché la morte di un uomo diminuisse tutti gli altri? Non era così. Voglio dire, solo in senso metaforico. Ognuno di noi era un’isola. Quando sentivamo della morte di qualcuno, ed era qualcuno che avevamo conosciuto direttamente o indirettamente, sentivamo una perdita, ma dovevamo esserne informati, la notizia doveva esserci espressa in parole, mi capite?
Lo fissano con solennità. Lingue bianche scivolano sulle loro labbra sottili. Piantano i polpastrelli delle dita nel morbido terriccio in un gesto evidente di sconforto.
— In realtà mi capite — dice lui, vedendo il loro improvviso, nuovo interesse. — Naturalmente lo fate. Se Hanmer può trarre una frase di Shakespeare dalla mia testa, voi potrete estrarre certamente anche la natura della condizione umana. Non avete bisogno di farmi tutte queste domande. Voi comprendete.
— Dicci — chiede Angelon, inginocchiandosi con la testa stretta tra le cosce — com’era vivere sapendo che si doveva morire.
Clay considera la domanda. Dopo un po’, dice: — Molta gente riusciva ad accettare la cosa serenamente. L’accettavano come un fatto ineluttabile che sfugge a ogni controllo. Lo scopo dell’esistenza, allora, diventava vivere il più intensamente possibile nel tempo di cui si disponeva, cercando di non perdere nemmeno un istante, di trovare qualcuno d’amare e qualcosa da costruire, di conquistarsi l’immortalità creando qualcosa, o generando qualcuno, e mantenendosi sani in modo da poter prolungare la vita… E in effetti penso che il tempo a disposizione fosse sufficiente quasi per tutti. Verso la fine, suppongo, un uomo normale aveva avuto tutto quello che poteva aver desiderato; il suo corpo si deteriorava, poi si ammalava, spesso soffrendo parecchio… Voi sapete cosa sia il dolore? Conoscete la malattia?… Insomma, era la solita vecchia routine: si arrivava stanchi della vita, di alzarsi e mangiare e lavorare e dormire, e la famiglia era cresciuta e ormai andava avanti per conto proprio, e, be’, sospetto che la fine non fosse poi tanto dura. Naturalmente, c’erano i pensatori e gli artisti che sentivano di avere ancora molto da dare al mondo, e non volevano andarsene, e c’erano quelli che rimanevano svegli e vigorosi anche nell’età avanzata, e avevano ancora tanto da vedere, e quelli che erano animati da una curiosità interiore simile a un fuoco, che volevano sapere cosa sarebbe successo l’anno seguente e quello seguente ancora fino all’eternità, e non volevano affatto andarsene. E c’era poi moltissima gente che veniva presa via troppo presto, prima ancora di aver cominciato a vivere: uccisi in incidenti o falciati da malattie infantili o colpiti in guerra, sapete, e in questi casi era una vera ingiustizia. Ma grosso modo, penso che dopo sessanta o settant’anni, l’essere umano medio era pronto ad andare, e non considerava un affronto così terribile al suo ego il fatto di dover morire. Tutto questo, può esservi in qualche modo comprensibile?
— Sessanta o settant’anni? — chiede Serifice.
— La durata media della vita. Ottanta non era insolito. Alcuni arrivavano a novanta. Oltre i novanta, pochissimi.
— Sessanta o settant’anni — dice Serifice. — E poi si scompare per sempre. Che bello. Che strano. Come i fiori! Adesso ti capisco meglio. La tua sofferenza. La tua meraviglia. La tua distanza. Clay, ti amiamo ancora di più. Ci hai dato un enorme piacere! — Batte le mani. — Guarda, adesso! In tuo onore, Clay: tenterò di morire.
— Aspetta! — esclama lui. — Ascolta… non…
Lei si lancia in avanti, attraverso il campo di fronde trasparenti e ondeggianti. Gli altri Sfioratori, sorridendo serenamente, si avvicinano a Clay, che rimane immobile e attonito a fissarla. Quasi tutti gli toccano la pelle. Fanno qualche lieve modifica in lui cosicché possa vedere come loro, e Clay li percepisce come totalità, l’unità sestuplice Ti-Brill-Hanmer-Angelon-Ninameen-Serifice, le loro anime sono fuse in una singola sospensione splendente.