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Si volta. Cammina. Il robot si allontana.

Clay sbircia in stanze e negozi. Tutto abbastanza pulito, una Pompei a sua disposizione, nessuna porta chiusa. In un locale uno schermo televisivo mostra, dando un tocco leggero a un pulsante, protuberanze tridimensionali che si formano e scompaiono come bolle di lava fusa. Più avanti c’è un gabinetto ottagonale le cui pareti di porcellana trasudano realistico sangue, alla semplice pressione di un pulsante. Forme verdi simili a salsicce sporgono e fuoriescono da un ammasso di recipienti metallici su quello che potrebbe essere uno scaffale. Un letto cambia forma e dimensioni con energia frenetica, diventando più grosso, più piccolo, circolare, rettangolare. Un colossale fallo rosa, sinistro per la sua apparente vitalità, si innalza dal centro di una pedana levigata nera. Un muro si dissolve in una serie di disegni a mosaico. Sferette che si muovono disordinatamente lungo i bordi di una finestra lo inondano di profumi, aromi, lozioni, unguenti, e un esile fluido rosa che consuma i suoi abiti in un paio di secondi. Lui è felice di tornare alla nudità, anche se rimane davanti alle sferette troppo a lungo, e una di esse gli spruzza un olio rosso che gli anestetizza la pelle. Si mette un dito nell’orecchio: nulla. Si gratta cautamente il petto: nulla. Stringe il pene nel pugno: nulla. Non sente nemmeno il contatto dei piedi nudi sul pavimento ruvido. È una cosa permanente? Si immagina mentre sbatte involontariamente in oggetti taglienti che gli incidono la pelle e gli tagliano i piedi senza che nemmeno se ne accorga, non fino a quando si troverà ridotto a un ammasso pulsante di muscoli appesi a ossa nude. — Robot? — chiama. — Ehi, robot, vieni ad aiutarmi! — ma prima che l’uomo-macchina possa raggiungerlo, due sferette lo spruzzano improvvisamente e contemporaneamente, e lui sente che le cellule nervose riprendono vita con intensità talmente meravigliosa che raggiunge all’istante l’orgasmo. Un po’ ansimando, si allontana, congedando il robot con secchi monosillabi. Andando avanti, si imbatte in mezzo a una doppia parete di specchi dritti, deformi e ondulati, e si trova catturato in un riflesso infinito, rimbalzando e rimbalzando e rimbalzando da una parete all’altra a seconda delle inclinazioni e deformazioni assunte dagli specchi; si butta al suolo cercando disperatamente di sfuggire alla loro portata. Come hanno fatto a sopravvivere tutte queste cose, si chiede, se il mondo ha attraversato tanti sommovimenti e cataclismi geologici, quando gli stessi continenti hanno assunto nuove forme? Considera la probabilità che il mondo-galleria, dopotutto, sia un’illusione. Si sposta in una serie diversa di strade e gallerie; qui l’architettura è di un altro stile, più brutale, meno immaginativo di quello precedente, ma gli ornamenti e le strutture superficiali delle strutture sono di gran lunga superiori. Robot spuntano da ogni angolo e si offrono di servirlo, ma lui tiene gli occhi puntati sul suo robot, quello che lo segue a distanza rispettosa, e non presta minimamente attenzione agli altri. — Dov’è andata la gente? — chiede al robot. — Perché se ne sono andati? Quando? — Il robot risponde, impassibile: — Un giorno non ci furono più. — Clay accetta questa risposta con buona grazia. Tocca un pulsante e una pellicola astratta tridimensionale fuoriesce da un proiettore fluorescente. Quando rilascia il bottone l’intero allegro formicolio di luci colorate rientra all’indietro nel proiettore, con un rumore di risucchio mentre svanisce. In un’altra stanza trova giochi d’azzardo: luci che brillano e rimbalzano, ruote che girano in orbite casuali, banche, segnapunti, fiches, dadi d’ebano, carte da gioco che si mescolano e dispongono appena le si tocca. Dietro c’è qualcosa che ricorda un acquario gigantesco, ma dentro non ci sono pesci. Poi affronta un rompicapo da bambini, un albero scomposto, una struttura vuota, e una piccola scatola sigillata. Procede. Getti di vapore bollente lo dissuadono dal tentare una stanza attraente e seducente dalle pareti spugnose e a forma di utero. Evita una rampa di scale che scendono a quello che potrebbe essere un livello inferiore, in quanto nubi avvolgenti di vapore verde scaturiscono dal nulla appena scesi i primi tre scalini. Arriva in un luogo dove i robot stanno smontando altri robot. Scopre uno schermo maestoso che mostra una visione del mondo di superficie: dolci colline e vallate, nessuna traccia del crudele deserto di allucinazioni attraverso il quale infine è arrivato. Infine raggiunge una porta graziosamente intarsiata di solido metallo che sembra alluminio, e, mentre si apre solennemente da sola, il robot trotterella verso di lui e gli dice: — Oltre questo punto non ci sono difese.

— Cosa vorresti farmi intendere, con questo?

— Se continui in questa direzione non possiamo proteggerti.

Clay guarda nel corridoio che si apre davanti a lui. Sembra in tutto simile a quello che ha appena esplorato, ma se possibile è ancora più luminoso e attraente. Gli edifici hanno facciate sottili e maestose che risplendono con il fuoco misurato dei rubini più fini, e lui riconosce un’eco di musica elegante che proviene da qualche cortile vicino. Proseguirà. Il robot ripete il suo avvertimento, e Clay osserva: — Ciò nonostante, accetto il rischio. — Mentre muove il primo passo nel settore proibito un pensiero sgradevole lo colpisce, e, voltandosi, chiede al robot: — Quando sarò entrato questa porta si chiuderà?

— Affermativo.

— No — dice Clay. — Non voglio che ciò avvenga. Ti ordino di lasciarla aperta fino a quando tornerò.

— Ho istruzioni ben precise di impedire le incursioni da parte degli abitanti di…

— Dimenticale. Questo è un ordine. In questo momento sono l’unico uomo presente sul pianeta, e questo posto è stato costruito per servire gli uomini, e voi stessi non siete nient’altro che macchine progettate per rendere la vita umana più felice e ricca di soddisfazioni, e che io sia dannato se ti permetterò di sfidarmi. La porta rimane aperta. Hai capito?

Esitazione. Conflitto.

— Affermativo — dice infine il robot.

Clay entra. Al sesto passo si volta. La porta è ancora aperta. Il suo robot è accanto alla soglia, in attesa. — Bene — dice Clay. — Ricorda, io sono il capo. Rimane aperta.

Mentre analizza le facciate classiche in quel settore del mondo-galleria, scorge il primo segno, dopo il cadavere dell’uomo-capra, del fatto che la vita non-meccanica è riuscita a infiltrarsi nel rifugio sotterraneo. Otto piccole pallottoline verdi si trovano all’esterno di un edificio traslucido. Chiaramente sono i rifiuti organici di qualche animale dell’epoca. Dove non arrivano i robot, la vita ha ripreso il sopravvento.

Improvvisamente Clay vede di fronte a sé il possibile depositatore delle pallottoline: un animale oblungo, basso sul terreno, che si muove su gambe tozze e agita una coda nuda e purpurea. La sua schiena è costellata di occhi. Clay è consapevole dell’esistenza di un’intelligenza crudele e intenzionale all’interno della bestia. Non sarà un figlio dell’uomo anche questo? No. Non c’è nemmeno una briciola di umanità, in lui. È accucciato un po’ più avanti, nel corridoio. Si allontana. Clay lo segue. La bestia si lancia. Una preda invisibile, forse? La bestia afferra qualcosa con le zampe e la coda, vi affonda le zanne. Mastica. Prova evidente soddisfazione. Un piccolo brutto carnivoro, intento a mangiare. Dopo un po’ ha finito; trascina la sua vittima invisibile in un’alcova e riemerge, depositando altre pallottoline verdi. Se ne va. Clay procede per la sua strada.

Qui manca del tutto la manutenzione. L’aria è umida, inquinata, protoplasmica. Tele scintillanti pendono dalle pareti, e predatori scricchiolanti si annidano nel centro. Clay ne guarda uno da vicino: un’aragosta blu e pelosa. Gli sorride famelica. Lui le scivola di fianco ed entra in un meraviglioso cortile in cui una fontana radiosa scorre e riluce. Qui ci sono altre macchine del tipo comune dall’altra parte della porta, anche se non ha ancora visto due strumenti uguali. Davanti a lui c’è uno specchio concavo, la cui cavità sembra maliziosamente dolce e scintillante, come una porta d’ingresso per il paese delle fate. Ne tocca la superficie serica e vetrosa con quattro dita, poi ci ripensa e le ritira. — A cosa servi? — chiede allo strumento. — Le cose qui dovrebbero avere tutte un’etichetta, tipo BEVETEMI O SCHIACCIATE QUESTO PULSANTE, AVRETE OTTIME ALLUCINAZIONI, o cose del genere. Non possono aspettarsi che un estraneo capisca tutto da solo. Potrebbe farsi male. O danneggiare qualche meccanismo delicato.