— Che cosa sognerete?
— Sogneremo il tuo mondo — ella risponde, sorridendo serenamente. — Perché tu sei solo.
16
Chiude gli occhi, e lo prendono per mano, e scivolano sul fondo del lago, e sognano senza dormire, e lui sogna con loro, e sognano il suo mondo, poiché lui è solo.
Sognano l’Egitto per lui. Sognano piramidi lastricate di bianco e sfingi sorridenti, sognano scorpioni sulla rossa sabbia bollente, sognano le colonne di Luxor e Karnak. Sognano i faraoni. Sognano Anubi e Set, Osiride, Horus, Ra il falcone. Sognano Lascaux e Altamira, le lampade puzzolenti di grasso di mammuth, l’artista mancino che ha inciso i suoi dipinti color ocra sulla parete di una caverna, le orde di rinoceronti selvaggi, lo stregone con gli abiti cerimoniali. Sognano le gentili cupole di Bisanzio. Sognano Colombo che solca le acque del mare. Sognano la Statua della Libertà con la spada tenuta alta nella mano. Sognano la luna, con sopra le impronte dell’uomo, e gli immobili ragni metallici. Una macchia di alberi di cedro, la Torre Eiffel, il Grand Canyon del Colorado, le spiagge coralline di St. Corix, il Ponte di Brooklyn all’alba, la Riviera, il Bowery. Sognano piccioni viaggiatori, falchi, anatre e oche, cigni e i galli cedroni, giraffe e mastodonti. Sognano tigri e leoni, cani e gatti, gazzelle, cerbiatti, ragni, pipistrelli. Sognano autostrade. Sognano gallerie. Sognano macchine per cucire. Sognano sottopassaggi. Benedettini e chartreuse, cognac, bourbon, whisky e grappa. Lincoln. Washington. Napoleone. Pontoppidan. Visualizza i vari frammenti mentre gli passano davanti fluttuando, li abbraccia, li libera, raggiunge quelli successivi. Il flusso è fertile. Sognano i suoi amici e la sua famiglia, la sua casa, le sue scarpe. Sognano lo stesso Clay, e lo mandano a fluttuare davanti a se stesso. Stiracchiandosi, rigirandosi, mormorando, traggono dal nulla immagini vaganti e lasciano libere queste immagini per scuoterlo a fondo. Gli danno le Crociate, i film, il New York Times le prove sperimentali a Eniwetok, il Modello A, il Ponte Vecchio, la Nona Sinfonia, la Chiesa del Santo Sepolcro, il gusto del tabacco, e l’Albert Memorial. Il ritmo aumenta. Lo inondano di ricordi. Affollano il lago appiccicoso con frammenti del passato. Sono affascinati e deliziati ed eccitati da ogni scoperta, e mormorano: questo cos’è e quello chi era? E questo come si chiama? — Sei felice di rivedere queste cose? — sussurra qualcuno. — Pensavi che fossero irrecuperabili? — Lui si lamenta. Il sogno è durato troppo.
Finisce. Il sogno-dono svanisce. A caso, afferra Ninameen, e la stringe vicino a sé fino a quando gli spasmi della terribile crisi di identità hanno concluso il loro momento. — Hai paura? — chiede lei. — Sei in crisi? Sei triste?
17
Un giorno e una notte, un giorno e una notte e un giorno: entrano in una terra di boschi e ruscelli, sconvolta e contorta, pattugliata da animali. Certi schemi sembrano decisamente cari all’evoluzione. Vede qualcosa che è quasi un cervo, anche se è incoronato di rami verdi e fioriti invece che di corna; vede un quasi-orso, panciuto e giocoso, reso strano solo dalla sua cresta di aculei spinosi; vede code piatte colpire l’acqua, e pensa a uccelli predatori, anche se i loro possessori hanno lunghi colli serpentini; riconosce un cumulo di lame splendenti come un porcospino, un lampo di denti e una coda come una lince, un tremore di lunghe orecchie e di peluria cremosa come un coniglio. Ci sono anche molti animali per i quali non riesce a trovare una controparte nella zoologia dei tempi passati: un ammasso ambulante di carne pelosa con cinque tronchi equidistanti lungo il perimetro, una cosa blu verticale che gira intorno a una singola gamba gommosa, un uccello privo di ali con muso da coccodrillo che termina in un becco di pollo, una donnola scagliosa e senza zampe con tre corpi serpentiformi collegati in parallelo, e altro. Man mano che avanzano, il tempo peggiora, il che lo colpisce molto, in quanto qui è chiaramente autunno e lui si è ormai abituato a un mondo privo di stagioni o a zone climatiche. Un vento gelido soffia verso di loro. Foglie di cuoio ondeggiano nell’aria mossa dalla brezza. La luce solare è tenue e soffocata, tutti i rumori sono più acuti. Grandi nuvole grigie pesano sull’orizzonte. — Ci avviciniamo a un’altra zona sgradevole — spiega Hanmer.
— Quale?
— Si chiama Ghiaccio.
Il posto chiamato Ghiaccio piomba su di loro con grande rapidità. Uno spesso sipario di alberi strettamente serrati che portano aghi blu, come fossero escrescenze cancerogene, segna il confine tra la zona boscosa e la tremenda regione successiva. I marciatori si spingono in mezzo a questi alberi ed emergono nell’inverno eterno. Come un labbro leporino su un viso dolce appare questa porzione incongrua della vecchia Antartide, in qualche modo trasportata in un mondo più accogliente. Ovunque regna la bianchezza, lasciando attoniti, intontiti. Il furioso riverbero colpisce gli occhi di Clay, e lui distoglie lo sguardo, dicendo a Serifice: — Sei sicura che non sia questo il luogo in cui sei andata, scambiandolo per la morte? — Lei risponde: — La morte era molto più bianca di così. E non proprio così fredda.
Freddo. Sì. Nudi in balia della furia polare. Clay congelerà, diventerà una colonna di ghiaccio, con gli occhi ancora aperti, le labbra serrate, i genitali trasformati in ghiaccioli. — Dobbiamo andare avanti? — Ci sono dei limiti: cosa lo proteggerà? Il ghiaccio è scivoloso e bruciante, una coperta che ammanta la terra, viva di un terribile gelo mortale. Rocce nere, fessurate e spezzettate, emergono a fatica. Si sentono rombi e boati sotterranei, come appartenessero a cannoni nascosti. Sente gli scricchiolii sinistri dei crepacci. Eppure Hanmer continua ad avanzare sul ghiaccio e tutti gli altri lo seguono. Anche lui. Dolorante. Congelato. La luce solare gioca con il ghiaccio, rifrangendocisi sopra e screziandolo eternamente: blu profondo qui, giallo-verde là, e su queste creste il colore è rosso, matrimonio di luce e sangue. Nel gelido silenzio interrotto unicamente dai suoni sotterranei, una matassa di foschia avvolge i viaggiatori; pur essendo tentato di benedire quella specie di copertura naturale, Clay teme di rimaner separato dagli altri che gli sono nascosti dalla nebbia, e di morire in quella terra di nessuno. Infatti sa che sta traendo calore dagli altri. Essi lo nutrono man mano che procede l’avanzata.
Nella foschia compaiono figure confuse che attraversano il suo sentiero: creature erette e bipedi, magre e allungate, con corte gambe sproporzionate e corpi glabri e levigati. Una spessa coltre grigia le ricopre; i loro corpi sono potentemente muscolosi, con colli massicci che sorreggono le teste allungate a cupola. Le bocche sono ricche di denti. I nasi sono forti e allungati. Gli occhi, di un giallo luminoso, lampeggiano di cupidigia. Hanno un po’ l’aspetto di lontre gigantesche adattatesi a una vita di cammino, ma potrebbero essere benissimo uomini trasformati per affrontare le speciali condizioni di vita. Li teme. Si guarda intorno, cercando i suoi compagni, non riesce a trovarli e il panico si impadronisce della sua anima. — Hanmer? Ninameen? Ti?
Le creature grigie seguono un lungo e pacato cammino, ma appare chiaro che si stanno avvicinando. Sono circa una dozzina, adesso, sempre più visibili ogni volta che nella densa nebbia bianca si apre uno spiraglio. Clay ne sente l’odore: amaro, penetrante, un odore di lana lasciata troppo a lungo sotto la pioggia. Si sente assurdamente nudo. Sa che queste non sono bestie selvatiche, ma piuttosto i figli dell’uomo sotto un altro aspetto ancora.
— Bril? Angelon? Serifice?
Qualcosa di caldo gli tocca un gomito: il seno di Serifice. Si volta verso di lei, tremando. — Li vedi? — le sussurra.
— Naturalmente.
— Che cosa sono?
— Sono Distruttori. — Semplicemente, concretamente, con piena accettazione della cosa.
— Umani?