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Clay urla alla voce pedante, cattedratica, di uscirgli dalla testa: e quella sparisce, con il suono di fili che bruciano. Una lucertola incolore guizza sul terreno incolore: vede la scena come uno spostamento di strutture. C’è qualcosa di giapponese, decide, in questa speciale percezione. Si può dipendere dalla forma pura per l’identificazione degli oggetti; il mondo ha la sottigliezza di una sinfonia in una sola chiave, di un giardino di rose nere, di un singolo splendente segno calligrafico. Accetta questa restrizione percettiva. Si muove con grande dolcezza, temendo che un passo falso possa far ricomparire improvvisamente lo spettro. Com’è tranquillo questo posto, così deliziosamente vuoto. Anche il suono è incolore. — Ehilà — chiama. — Ehilà. Ehilà. Ehilà — e le parole sono simili a frecce di vetro, pure, caste. — Potete dirmi dove posso trovare gli Intercessori? — Vede rocce, alberi, uccelli, fiori, erba, insetti. Questo è lo spettro del mondo. Questa è l’ombra di un’ombra. Potrebbe rimanere qui per sempre, senza avere responsabilità, purificandosi mentalmente, ripulendosi dalle impurità dei vecchi colori, e di tutti quegli sgradevoli residui accumulati, dei verdi traslucidi e dei gialli e degli ultramarini e degli scarlatti e dei mirtilli e dei bistro e dei carminio e dei blu e dei grigi e degli arancioni e degli indaco e dei porpora e dei lilla e dei ciliegia e dei seppia e dei bronzi e degli smeraldi e dei vermigli e degli oro e degli argenti. Vedere un tramonto incolore diffuso pacificamente su un cielo incolore, guardare nel nucleo incolore di una foresta incolore, pensare pensieri incolori mentre il vento fa stormire tremolanti foglie incolori… Poi ricorda gli Sfioratori. Va avanti, passa su una striscia sabbiosa e in un posto in cui milioni di pezzettini di vetro scintillante, levigati e corrosi dal tempo, brillano silenziosi tutt’intorno, ed entra in un settore di fitti rovi da cui spuntano spine aguzze da viticci spessi che si spostano e si sollevano. Sospirando e sibilando, i viticci lo circondano come serpenti infuriati, facendo alcuni passaggi sperimentali sui suoi occhi, sui genitali, sulle cosce. — Avanti — dice Clay. — Tagliatemi, se dovete farlo, e poi toglietevi dai piedi! — I viticci esitano ancora. Lui li deride. Poi uno di essi gli punge un fianco con un bacio improvviso, traendone un rivoletto di sangue, e anche queste goccioline che scaturiscono sulle prime sono incolori, ma improvvisamente acquistano un rosso molto intenso; grazie a quello stupefacente rivoletto brillante sulla pelle capisce di aver passato il confine. All’improvviso i colori balzano fuori da ogni parte, oscenamente diffusi. Rimane stupefatto. La retina gli duole, irritata dal carico cromatico. Rosso! Arancione! Giallo! Verde! Blu! Indaco! Violetto! La struttura intrinseca si perde nel divampare furioso dello spettro. Abbandonare l’assenza di colore è triste; volta lo sguardo verso quel luogo, nella Speranza di coglierne un’ultima occhiata per ricordare quell’incolorità unica, ma gli occhi indolenziti non riescono più a cogliere la qualità dell’assenza di colore, e, stringendosi nelle spalle, affronta il massiccio bombardamento. I canali della sua mente che sono stati purificati dai detriti di colore residuo si riempiono nuovamente come pozzi ricolmi, ed emettono assetati risucchi man mano che la luce abbacinante vi entra. Come può esistere una tale luminosità? Tutto pulsa. Tutto irradia. Dal nucleo di una sola foglia provengono un migliaio di gradazioni di colore. Il cielo è un prisma, e lui danza sotto quei raggi grandiosi. La sua stessa pelle riluce di masse indecifrabili e cavernose di luce e ombra. I globi oculari sono inondati, e sembrano volergli rientrare nel cranio. Sta imparando i limiti dei suoi sensi: se non riesce in qualche modo a diminuire la ricettività, finirà bruciato per il sovraccarico. Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi! Chiudi gli occhi! - Chiudere gli occhi è un po’ morire — risponde fieramente, e fissa il sole. Vai! Fai del tuo peggio! Allarga le braccia. La sua umanità sorge. Beve le radiazioni multicolori e, annaspando, trova posto per tutte, e riempie ogni interstizio del suo corpo e stringe i pugni, e sfida il prisma gigante invitandolo a distruggerlo. E trionfa. E assorbe. E si riempie di rossi e di verdi. E raggiunge l’estasi, mandando il suo seme a spruzzare in uno splendido arco multicolore; nel suo percorso risplende purpureo e blu e dorato, e dove si ferma crea orgogliosi omuncoli avvolti in strati guizzanti di fiamma. Ride. Una nuvola passa davanti al sole. Si inginocchia e guarda in un universo che trova all’interno di una sola gocciolina d’acqua e una foglia rotonda e carnosa. Tutte le minuscole creature, sofferenti, amorose, sorgono, ricadono, si sforzano, perdono: invia loro la sua benedizione. — Dove sono gli Intercessori? — sussurra. — I miei amici sono in pericolo. Dove? Dove? Dove? — I colori si attenuano. Il mondo riprende le tonalità solite. Clay è assalito da dubbi, fantasmi, gnomi, arpie, fobie, nebbie, infermità, disfacimento, tabù, rigidità, bolge, bugie, infezioni, impotenze, ipocrisie, sbalzi di temperatura, sfibramento spirituale. Ondeggia in mezzo a questi miasmi come se stesse attraversando un mare di alghe, e ne emerge ricoperto di melma che si secca e si stacca al primo tocco del sole. Davanti a lui un grandioso promontorio roccioso, un enorme e spettacolare masso che spunta da una pianura qualunque e si innalza come un missile a un’altezza di centinaia di metri, formando un piedestallo alto e dalla sommità piatta che domina un paesaggio tranquillo. Annidate alla base di questo promontorio, dalla parte opposta della pianura, ci sono le rovine di un edificio immenso, una gigantesca struttura di pietra che anche nelle attuali condizioni di decadenza conserva uno straordinario senso di potenza e solennità: è un edificio a colonne in stile classico, grigio e stolido e sicuro nella sua maestosità, adatto come stile e pompa per diventare il museo supremo della Terra; il ricettacolo di tutto quanto è stato realizzato su questo pianeta. Molte sue colonne sono spezzate, il possente portale pende dai cardini marmorei, la base è in disfacimento, le finestre sono vuote occhiaie profonde e buie.

Eppure Clay comprende di non essersi imbattuto in un’opera minore, ma piuttosto in un luogo dal significato duraturo, e sente la strana sicurezza che qui potrà incontrare quelli che sta cercando. Si dirige verso la struttura colossale sentendosi in confronto un verme.

32

Raggiunge l’edificio da ovest. Il lato rivolto verso di lui è una massiccia lastra ininterrotta di granito grigio, non forata da finestre, quasi intoccata dal tempo; solo la distruzione della fila di rilievi ornamentali vicino alla base del tetto indica gli effetti delle ingiurie del tempo. Un lichene verde e tenace si aggrappa alle asperità del muro, creando schemi di colore cangiante, continenti che si allargano su una pietra antica. Alcune piantine hanno cominciato a spuntare anche sotto il porticato. La porta è scomparsa, ma, guardando attraverso l’uscio, vede solo oscurità nell’interno dell’edificio. Cautamente comincia a girarci intorno. Mentre procede, legioni di insetti turbinanti si levano attenti e silenziosi, spostandosi dalle pareti in gruppo a ogni suo passo. Ci sono roveti graffianti e marroni che raggiungono metà della sua altezza; puntano i rami pungenti verso il suo corpo nudo. Adesso è giunto di fronte all’edificio. Non si era reso conto, da lontano, della sua effettiva altezza; sale, sale e continua a salire, perdendosi nel cielo talmente in alto che si chiede se in effetti abbia realmente una fine. Eppure non è un grattacielo, dalla verticalità fallica. Ha la massa imponente di un vero e proprio museo. Nove enormi scalini marmorei portano all’entrata principale; ogni scalino è largo come l’edificio. Clay sale il primo scalino e il secondo, poi, perdendosi d’animo, decide di completare prima l’esame dell’esterno.

Segue un ruvido scalino verso est e gira l’angolo. Questo lato è distrutto. Le colonne sono tronconi sparpagliati, smozzicati come denti rotti. Viticci verdi e avvolgenti le tengono insieme. Il porticato è completamente crollato, e frammenti di capolavori, semisepolti, spuntano dal terreno. Cerca di scoprire quali scene vi fossero incise, e, avvicinandosi maggiormente a un masso scolpito che sembra intatto, osserva l’immagine delle bestie più strane che si siano mai viste, cose dagli occhi enormi e dalle bocche cavernose e la pelle grinzosa, mostruosità uscite dall’incubo più spaventoso; con un freddo fascino esamina questa galleria degli orrori fino a quando arriva a quello che è indubbiamente il suo ritratto, delicatamente inciso nella pietra lucente. È scosso, come se una lama di ghiaccio gli fosse entrata in un orecchio. Corre. Girando l’angolo, tenta di raggiungere il retro dell’edificio; ma è stato costruito aderente al promontorio imponente, e quindi non è possibile girare dietro. Ripercorre i suoi passi, evitando di riosservare quei tremendi ritratti, e ritorna alla facciata principale. Adesso, è il caso di entrare? Si ferma per un momento, pensieroso. Il tetto a terrazza è, come vede, infiorito da una lussureggiante vegetazione che si è radicata nelle fessure e nelle nicchie dell’intricata cornice frontale. Una vera e propria foresta vive lassù: un fresco sottobosco, ammassi di cespugli in fiore, alberi di ogni tipo, alcuni monumentali e che devono di certo aver già visto molti secoli. Anche il più grosso degli alberi, però, sembra un nano di fronte alla stratosferica altezza del tetto, cosicché tutta la massa aggrovigliata d’indisciplinata vegetazione non sembra altro che uno strato sottile di sedimenti casuali. Uccelli e animali vivono sugli alberi. Osserva un enorme e luminoso serpente giallo che si contorce e si insinua in mezzo ai cespugli. Basta. Entrerà. Sale i gradini.