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«Vedrò di venire», promise la ragazza. «Ora devo sbrigarmi... ho da telefo­nare in cronaca e poi bisognerà che avverta la zia Agatha.»

Scappò via con l’elasticità e la grazia d’una creatura dei boschi, mai domata. Will la vide entrare in una cabina telefonica sbalordito che una donna potes­se sconvolgerlo tanto. La carezza della sua liquida voce indugiava ancora entro di lui.

Il giovane trasse un profondo sospiro, abbassò il viso e strinse i pugni. Si pentì d’aver bevuto tanto whisky in quegli ultimi tempi e di non essersi preso abbastanza cura di sé. Intravvide il biancore della pelliccia di April, oltre il vetro della cabina, e rabbrividì ancora. Si allontanò. Che effetto ti farebbe,si disse, scoprire che quella rossa sirena è una volgare assassina?

Il dolore che si vedeva sulla faccia grinzosa e rinsecchita del vecchio Ben Chittum lo spinse a dire: «Vieni con me, Ben. Ho la macchina qui fuori, ti porto io in città».

«Grazie, Will, non preoccuparti.» Il vecchio riuscì a mettere insieme un sor­riso. «Rex tornerà a prendermi, quando avranno messo al sicuro quella cassa a casa di Sam.»

Il gruppetto dei familiari, abbandonato a se stesso dagli esploratori spariti con la cassa sulla macchina di Bennett, si aggirava malinconicamente nella sala d’aspetto. Barbee vide Nora che piangeva, e la piccola Pat cercava di consolarla.

Si volse a guardare se April fosse sempre nella cabina telefonica, poi seguì un’ispirazione improvvisa. Era lo stesso genere d’ispirazioni che lo avevano aiutato a scoprire cento nuovi indizi per rivelazioni sensazionali, quello che Preston Troy chiamava il requisito essenziale del vero reporter: aver «fiuto per le notizie». Una volta ne aveva parlato al dottor Glenn, e l’affabile psi­chiatra gli aveva risposto che quella facoltà non era che frutto di ragiona­menti logici, in atto sotto il livello della mente cosciente.

Si diresse rapidamente verso l’enorme cassone dei rifiuti, dietro l’edificio, e si mise a frugare tra giornali sporchi, cestini da viaggio vuoti e un cappello di paglia sfondato.

Sotto il cappello di paglia, Will Barbee trovò la borsetta di pelle di cocco­drillo.

I due capi di un nastro rosso pendevano fuori della cerniera, gualciti e con­torti come se fossero stati stretti, avvolti intorno a dita convulsamente tese. Barbee aprì la borsetta e trovò il corpicino senza vita del micio nero della zia Agatha. Il nastro rosso, legato a nodo scorsoio, era ancora stretto intorno al collo del gattino, e con tanta forza che la povera bestiola era stata quasi decapitata.

Una goccia di sangue, sulla fodera di seta bianca della borsetta, fece scopri­re a Barbee qualche altra cosa.

Nello spostare col dito il corpicino, il giornalista sentì sotto il polpastrello un oggetto duro e liscio, sepolto nel pelame della bestiola. Lo trasse fuori con cautela, ed emise un lieve sibilo quando lo esaminò alla luce che veniva dal terminal. Era il ricordo di famiglia che April aveva dato per perso, la spilla di giada bianca. La parte ornamentale era lavorata in modo da rappre­sentare un piccolo lupo in corsa, dai verdi occhi di malachite. Il lavoro era delicato e realistico: il minuscolo lupo appariva esile e pieno di grazia, come la stessa April.

Il fermaglio dietro la figura era aperto e il robusto spillone d’acciaio era stato piantato nel corpo del gattino. Una goccia di sangue nerastro lo seguì, quando Barbee lo trasse fuori. La punta, si disse il giornalista, doveva aver trafitto il cuore della povera bestiola.

4.

Barbee rammentava qualcosa di ciò che aveva imparato anni prima alle le­zioni di Mondrick sulle pratiche di magia in uso presso l’umanità primitiva, ma non era uno studioso di quelle che sono chiamate comunemente scienze occulte. Non c’era bisogno di essere esperti, tuttavia, per stabilire che il gatti­no nero e il vecchio esploratore erano morti nello stesso istante e nello stes­so modo.

Quasi certamente era stata April Bell a uccidere il gattino. Lei intendeva dunque — ignara di quanto la morte di Mondrick potesse dipendere da quella nuova magia biochimica, tanto di moda, chiamata allergia — procurare la morte di Mondrick?

Barbee ormai non ne dubitava.

Il suo primo impulso fu di portare la borsetta col suo spiacevole contenuto a casa di Sam Quain; ma abbandonò subito l’idea. La magia poteva essere un soggetto eccellente per monografie di studiosi eclettici e originali come Mondrick, ma Quain sarebbe scoppiato a ridere all’ipotesi di una strega molto giovane, molto bella, molto chic, con le labbra dipinte da un rossetto alla moda e le unghie laccate, che si dava a pratiche di magia nera in una moder­na città degli Stati Uniti. Senza contare che il tono brusco e distante di Sam lo aveva un po’ offeso.

E, poi, sentiva una certa riluttanza a coinvolgere April Bell. Dopo tutto, non aveva nessuna prova che fosse stata la ragazza a uccidere il gatto. C’era­no tanti monelli, all’aeroporto, all’arrivo di ogni apparecchio di linea! Forse, esisteva anche la zia Agatha. Quella sera, a cena, pensò Barbee, avrebbe cercato di sapere quanto più potesse di quella strana ragazza.

Ripulì lo spillo col lupo di giada e se lo mise in tasca, dopo aver gettato di nuovo la borsetta tra i rifiuti del bidone.

Uscendo dalla cabina telefonica, April Bell se lo trovò davanti, in attesa. La ragazza aveva il volto animato, gli occhi lucenti, forse per la soddisfazione di aver concluso il suo primo servizio importante. Certo, non aveva l’aria di un’assassina.

«Finito?», le disse Barbee, e indicando col mento il parcheggio, fuori, dove lo attendeva il suo vecchio macinino: «Posso accompagnarti in città?»

«Grazie, ma anch’io ho fuori la macchina.» Parve trattenere il fiato per un istante. «Zia Agatha aveva un bridge ed è tornata in città con l’autobus.»

«Oh.» Il giornalista cercò di nascondere il suo disappunto, nonché i suoi dubbi sull’esistenza della zia Agatha. «E questa sera, poi, ci si vede?»

«Ho telefonato alla zia, che ha detto di non avere nulla in contrario», ri­spose lei con un sorriso così gaio che gli riscaldò il cuore.

«Magnifico!», disse. «Dove abiti?»

«Al Trojan Arms, appartamento 2-C.»

«Oh!» non poté fare a meno d’esclamare Will Barbee. Il lussuoso residence era un’altra delle grosse imprese finanziarie di Preston Troy, e Barbee aveva dovuto parlarne più volte, elogiativamente, sul giornale. L’appartamento più economico, sapeva, non costava meno di 200 dollari al mese. April Bell gua­dagnava benino, a quanto pareva, per essere una cronista ai primi passi; a meno che, naturalmente, la zia Agatha fosse non solo reale, ma anche milionaria.

«Dove mi porterai?», domandò la rossa April.

«Al “Knob Hill”, ti va?», propose lui, sebbene quel ritrovo notturno subur­bano fosse davvero troppo costoso per cronisti sul ruolino stipendi dello Star.

«Delizioso!», cinguettò la ragazza.

L’accompagnò, nel vento notturno, verso la sua macchina, una lunga con­vertibile marrone, che non poteva costar meno, calcolò lui, a disagio, di 4000 dollari. Erano pochi i cronisti che potevano permettersi simili lussi. Ma forse anche quella macchina era della zia Agatha.

Le aprì lo sportello e lei salì rapida ed elegante, nella sua pelliccia immaco­lata, come la minuscola scultura di giada che Will aveva in tasca. April gli prese per un istante la mano e il tocco delle sue dita fredde e forti fu per lui sconvolgente come la sua voce. Will dovette lottare contro la tentazione di baciarla, timoroso di sciupare ogni cosa. Ansava un poco. Assassina o no, April Bell era una ragazza che faceva girare la testa.

«Ciao, Barbee», gli disse in un sussurro. «Alle nove!»