Le bianche spalle di lei si alzarono, in muta e disillusa stanchezza.
«Ormai», disse, «che importanza vuoi che abbia?»
«Ci sono cose che possono ancora avere molta importanza... per te, per me», rispose lui. La faccia della ragazza esprimeva soltanto una tristezza infinita, ma questa volta April gli permise di prenderle una mano, mentre le chiedeva con appassionato fervore: «Hai mai parlato di queste cose a qualcuno che potesse capire, non so, uno psichiatra, o uno scienziato come il povero Mondrick?».
Lei assentì con apatia.
«Ho un amico che sa tutto di me... conosceva mia madre e credo che ci abbia molto aiutato, quando abbiamo passato momenti difficili. Un paio d’anni or sono mi convinse ad andare dal dottor Glenn, Archer Glenn, quello giovane, sai, qui a Clarendon.»
Barbee cercò di soffocare l’istintivo bisogno geloso di chiedere maggiori informazioni su quell’amico, e le sue dita si strinsero sulla mano fredda e inerte di April, ma poi riuscì ad annuire con un’espressione di placida riflessività.
«Conosco Glenn», disse. «L’ho intervistato una volta, quando suo padre lavorava ancora con lui; dovevo preparare un servizio per lo Star su Glennhaven, che molti considerano la migliore clinica psichiatrica degli Stati Uniti... E che cosa ti disse Glenn?»
«Oh, Glenn non crede alle streghe», rispose lei con la sua aria beffarda. «Cercò di psicoanalizzarmi. Per quasi un anno sono andata ogni giorno a coricarmi per un’ora su un divano del suo studio, a Glennhaven, e a raccontargli i fatti miei. Ho fatto del mio meglio per collaborare... a quaranta dollari l’ora! Gli ho detto tutto quanto ho raccontato a te, ma lui continua a non credere alle streghe.»
Emise un piccolo riso soffocato.
«Glenn pensa che nell’universo tutto si possa spiegare in base al concetto che due e due fanno quattro. Mi ripeteva che, se si getta una specie di incantesimo su qualunque cosa e poi si ha la pazienza di aspettare, qualcosa prima o poi dovrà accadere. Insomma, voleva dire che io cercavo inconsciamente d’ingannare me stessa. Era convinto che io sia un po’ squilibrata, una paranoica, per chiamare le cose col loro nome. Ma che fossi una strega, non voleva nemmeno lasciarmelo dire.»
Un sorriso malizioso le illuminò debolmente il bel viso.
«Neanche quando glielo dimostrai.»
«Glielo dimostrasti? E in che modo?»
«I cani di solito non hanno simpatia per me, e ogni volta che andavo a Glennhaven, che come sai è in aperta campagna, i cani delle fattorie mi venivano incontro sulla strada, pieni di odio, abbaiando frenetici, e mi perseguitavano così dalla fermata dell’autobus fino alla clinica. Un giorno che ne avevo veramente abbastanza, decisi di dare una piccola dimostrazione a Glenn. Portai un po’ di creta umida e la mescolai alla polvere presa ai piedi d’una panchina all’angolo, dove i cani erano soliti sostare. Nell’ufficio di Glenn, modellai con la creta le figure di cinque di quei cani. Mormorai una delle mie filastrocche, sputai sopra i modellini e infine li spaccai gettandoli a terra. Quindi invitai Glenn a guardare dalla finestra.»
Una luce strana brillava ora negli occhi obliqui della ragazza.
«Aspettammo una decina di minuti. Io gli indicai i cani, che come al solito mi avevano inseguito fin sulla porta della clinica e ora stavano abbaiando alla nostra finestra. Improvvisamente si gettarono tutti all’inseguimento d’una cagnetta, una terrier,che doveva essere in calore. Si erano spinti in gruppo in mezzo alla strada, quando una macchina lanciata a grande velocità sbucò dalla curva. L’uomo al volante cercò di sterzare, ma non ne ebbe tempo. La macchina investì in pieno i cani, prima di rovesciarsi sul margine della strada. Tutti i cani rimasero uccisi, e con mio sollievo seppi che l’automobilista era rimasto miracolosamente illeso.»
«E Glenn, che disse?»
«Ne parve deliziato.» April Bell sorrise enigmaticamente. «Appresi poi che la cagnetta apparteneva a un chiroterapista con lo studio in fondo alla strada. Glenn non ama né i cani né i seguaci della chiroterapia, ma anche quella volta non si lasciò convincere all’esistenza delle streghe. Secondo lui, i cani erano morti perché la cagnetta s’era liberata del guinzaglio e non a causa di qualche mia “fattura”. Disse poi ch’era evidente come io non volessi rinunciare alla mia psicosi e che pertanto non avremmo fatto progressi fino a quando non avessi cambiato atteggiamento. Il mio presunto dono soprannaturale, secondo Glenn non era che autoillusione di origine paranoica. Mi addebitò altri quaranta dollari per quell’ora supplementare e iniziammo la seduta di psicanalisi.»
Barbee esalò un getto di fumo azzurro nella nebbia rossastra della sala e si mosse a disagio nella sua poltroncina triangolare. Vide il cameriere spiarlo imperiosamente, ma non aveva più voglia di bere, e riportò lo sguardo su April Bell. La ragazza ora sembrava al colmo della stanchezza. Lentamente, trasse la mano fredda di sotto alle dita del giornalista.
«E tu sei convinto che avesse ragione lui, Barbee.»
«Santo Cielo», esclamò il giornalista, «non ci sarebbe troppo da stupirsi se tu rivelassi qualche tendenza alla follia, dopo tutto quello che hai passato!»
E si sentì sommergere da un’onda di compassione per tutte le sue sofferenze, per l’ignoranza e il fanatismo d’un padre crudele, che l’avevano spinta a credere a tali assurde fantasie. L’aria soffocante lo fece tossire. Cercò di nascondere sotto quella tosse i suoi sentimenti: temeva che una pietà troppo palese potesse offenderla.
Con molta calma April disse:
«So benissimo di non essere pazza».
Tutti i pazzi dicono così, pensò Barbee. E s’accorse di non avere più niente da dire. Aveva bisogno di tempo per riflettere, per analizzare quelle straordinarie confessioni e verificarle alla luce della morte di Mondrick. Guardò l’orologio e accennò col capo alla sala da pranzo:
«Vogliamo mangiare?», propose.
Lei assentì con entusiasmo.
«Ho una fame da lupo», disse.
La frase frenò Barbee, ricordandogli la spilla di giada. La ragazza stava già allungando il braccio verso la pelliccia, ma Barbee ricadde pesantemente sulla sua scomoda poltroncina.
«Beviamo un ultimo cocktail.» Chiamò il cameriere con un cenno e ordinò altri due dacquari, prima che April si volgesse a guardarlo con un’espressione d’imbronciato stupore. «Lo so che è tardi», le disse in tono di scusa, «ma vorrei chiederti ancora una cosa.» Esitò, vide di nuovo quella pericolosa tensione immobilizzare il corpo della ragazza in un’attesa elettrica, e con riluttanza le chiese: «Sei stata tu, vero, ad ammazzare quel gattino?».
«Sì.»
«Per causare la morte del professor Mondrick?»
Nel fumo rossastro, April annuì, quasi distrattamente.
«E infatti è morto.»
C’era veramente da impazzire.
«Ma perché, April, desideravi la sua morte?»
La voce di lei, nel rispondere, era impersonale e lontana, come se venisse da una torre lontanissima:
«Perché avevo paura».
Barbee inarcò le sopracciglia.
«Paura? e di che? Mi hai detto che non lo conoscevi nemmeno. E che male avrebbe mai potuto farti? Io, magari, potevo aver dei motivi di rancore verso di lui, per avermi allontanato dalla sua cerchia, senza che gli avessi mai fatto nulla, ma era un uomo innocuo e generoso, uno scienziato amante solo della verità e della luce.»
«Sapevo ciò che voleva fare.» La voce della ragazza era dura e fredda, ma ancora lontanissima, proveniente come da una remota fortezza assediata. «Vedi, Will, io ho sempre voluto conoscere la mia vita interiore, la forza che avevo in me. Non ho studiato psicologia all’università, perché tutti i professori sembravano stupidamente radicati nell’errore. Ma ho letto quasi tutto ciò che è stato pubblicato su casi insoliti e bizzarri come il mio. Tu forse non sai che Mondrick era un’autorità riconosciuta nel campo della stregoneria. Conosceva a fondo la storia delle persecuzioni delle streghe, e molte altre cose ancora. Aveva studiato le leggende di tutte le razze primitive, e quelle leggende erano per lui qualcosa di più che strane fiabe e miti fantasiosi. I miti dell’antica Grecia, per esempio, pieni di amori tra gli dèi e le fanciulle degli uomini. Quasi tutti gli eroi greci, Ercole, Perseo, ecc, avevano fama di possedere una parte illegittima di sangue immortale nelle vene. E avevano doni e poteri sovrumani. Bene, anni fa Mondrick scrisse una monografia che analizzava queste leggende, interpretandole come ricordi razziali del conflitto e degli occasionali incroci fra due razze preistoriche: gli alti ed evoluti Cromagnon, forse, e gli scimmieschi Neanderthaliani. Del resto, tu hai studiato con lui, Barbee, e dovresti conoscere l’estensione delle sue ricerche. Cercava di individuare differenze in seno all’umanità odierna, faceva prove del sangue, misurava reazioni, analizzava sogni negli individui più disparati. Aveva la mente aperta a tutte quelle cose che gli scienziati rifiutano solo perché non corrispondono alle loro prevenzioni; era un’autorità in fatto di parapsicologia e telecinesi, e si può dire che non abbia lasciata intentata nessuna via per giungere alla conoscenza che lo attirava.»