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Barbee assentì calorosamente.

«Farò il possibile, mia bella fata.»

6.

Rimasero nel locale fino alla chiusura. La cena era stata superiore a ogni aspettativa e l’orchestra suonava, si sarebbe detto, solo per loro due, mentre April Bell si muoveva tra le sue braccia con una grazia morbida e lieve da animale selvatico.

Barbee avrebbe voluto accompagnarla a casa, ma c’era la splendida conver­tibile della ragazza nel parcheggio del locale, e il giornalista dovette limitarsi ad accompagnarla solo all’automobile. Le aprì lo sportello, e mentre lei scivolava sul sedile verso il volante, la prese impulsivamente per il braccio.

«Sai, April», le disse, non sapendo bene nemmeno lui che cosa volesse dir­le; poi vedendo il cordiale sorriso di lei in attesa, continuò: «Provo per te qualcosa che non riesco a capire. Una strana sensazione... che non mi so spiegare».

Il volto pallido di lei era lievemente rovesciato sotto il suo, e lui fu domina­to da un divorante bisogno di baciarla.

«La sensazione, forse, di averti conosciuta sempre. La sensazione che tu sia parte di qualcosa... d’una cosa antica e importante... che appartiene solo a te e a me. Come se tu avessi ridestato qualche cosa che dormiva in me...»

Lei sorrise nell’ombra, e la sua voce morbida accennò dolcemente l’aria di una canzone che quella sera avevano ballato: Forse è amore.

Era l’amore, forse. Anni e anni erano passati dall’ultima volta in cui Will Barbee s’era creduto innamorato, ma a ripensarci bene il turbamento prova­to allora non era nemmeno paragonabile a quello attuale. Perché aveva an­cora paura, non di April, non più ora, ma delle vaghe, quasi travolgenti sen­sazioni che April ridestava in lui, delle correnti e delle forze e degli istintivi ricordi che suscitava nel suo intimo. Tutte cose ch’era impossibile esprimere; un altro brivido lo scosse, irresistibilmente.

«Questo vento è sempre più freddo!» Non cercò di baciarla. Bruscamente, quasi con durezza, la spinse entro la macchina e chiuse lo sportello di colpo. «Grazie per la serata meravigliosa.» Non voleva rivelare la confusione del suo stato d’animo. «Passerò a salutarti domani al Trojan Arms.»

April lo guardò dal suo posto davanti al volante. Il lento sorriso che le aleggiava sulle labbra sembrava rivelare che era consapevole di tanto turba­mento spirituale.

«Buona notte, Barbee», gli disse in tono carezzevole, chinando il capo in cerca del bottone della messa in moto.

Il giornalista rimase fermo a vederla scivolar via sulla grande macchina si­lenziosa come una nave. Giocherellava con lo spillo di giada che aveva in tasca. Si chiese in virtù di quale timore — o di quale abulia — non gliel’avesse restituito. Una nuova folata di vento gelido lo investì, e lo spinse verso il suo vecchio macinino.

Barbee scrisse il servizio sul funerale di Mondrick per lo Star. Le esequie erano state fissate alle due del pomeriggio, e il vento della vigilia soffiava ancora, più freddo e tagliente che mai.

Nick Spivak e Rex Chittum erano tra coloro che tenevano i cordoni, ma Sam Quain, stranamente, mancava. Barbee si pose al fianco di Nora, a qual­che passo di distanza da Rowena Mondrick, che procedeva più impettita che mai tra il suo gran cane fulvo e la governante.

«No, Sam sta benissimo», rispose Nora alla domanda sussurratale da Bar­bee. Nora era sempre rimasta gentile e affettuosa con lui, anche se Mondrick e Sam erano cambiati. Tanto che Barbee, s’era chiesto più volte quanto di­versa sarebbe stata la sua vita se Nora avesse sposato lui anziché Sam. «È rimasto a casa per tener d’occhio quella cassa che hanno portato dall’Asia. Hai un’idea di quello che possa contenere?»

Barbee scosse il capo, rispondendo che non ne aveva la più pallida idea. Rowena doveva avere udito le loro voci, perché si voltò di scatto, quasi con allarme. Aveva la faccia sconvolta, pallidissima.

«Will Barbee?», chiamò forte. «Sei tu?»

«Sì, Rowena», e si mise a balbettare qualche generica parola di condoglian­za; ma la cieca non attese.

«Ho sempre bisogno di vederti, sai, Will», disse Rowena, ansiosamente. «Spero che non sia ancora troppo tardi per aiutarti. Puoi venire da me oggi... diciamo, le quattro?»

Barbee fissò incerto quel viso sottile, pallidissimo, che un’angoscia indicibi­le sembrava sconvolgere più ancora del dolore per la perdita del marito, ri­cordò la telefonata della sera prima e si chiese ancora quanto la morte di Mondrick avesse potuto ledere le facoltà mentali della povera donna.

«Va bene, Rowena», promise; «alle quattro sarò a casa tua.»

Mancavano cinque minuti all’ora fissata, quando Barbee fermò la macchina davanti alla vecchia e malandata casa di mattoni rossi sull’University Avenue. Le imposte erano tarlate e traballanti, i muri scrostati e il prato del giardino incolto rivelava chiazze nude e spelacchiate. L’Istituto aveva eviden­temente prosciugato quasi tutti i fondi i Mondrick, oltre ai capitali che lo scienziato era riuscito a raccogliere da altri.

Rowena stessa venne ad aprire.

«Grazie d’essere venuto», gli disse con volce dolce e composta, sebbene sul volto le si vedessero le tracce di lacrime recenti. E introdusse Barbee nel salotto ch’egli conosceva fin da quando lui e Sam erano stati a pensione nella casa. La camera era lievemente soffusa del profumo che emanava da un gran vaso di rose sul pianoforte. Una stufetta a gas ardeva nella nera caverna del caminetto, davanti al quale Turk se ne stava accosciato in posa leonina, fis­sando i gialli occhi attenti sul nuovo venuto.

«Siedi», lo invitò Rowena. «Ho mandato fuori la signorina Ulford a fare delle spese, perché dobbiamo parlare da soli, Will.»

Impressionato dalla solennità del preambolo, il giovane sedette, mormoran­do confusamente qualche parola di condoglianza sulla fatale disgrazia che aveva colto Mondrick.

«Non è stata una disgrazia, Will», disse dolcemente la cieca. «Mio marito è stato assassinato... ero convinta che anche tu lo sospettassi.»

Barbee inghiottì penosamente. Non intendeva parlare di sospetti e perples­sità con nessuno, prima di decidere qualcosa in cuor suo a proposito di April Bell.

«Sì, l’ho sospettato», ammise; «ma erano sospetti campati in aria.»

«Sei stato con April Bell, ieri sera?»

«Siamo stati a cena insieme.» Osservò la cieca che veniva con la sua scon­certante sicurezza di movimenti a porsi davanti a lui, restando poi ritta così, nel sobrio vestito nero, una mano sottile appoggiata sul piano a coda. Un lievissimo moto di risentimento lo spinse a dire in tono difensivo: «So che Turk non ama April Bell, ma io sono convinto che si tratti di una ragazza eccezionale».

«Temevo infatti che tu la vedessi in questa luce», disse la cieca, con voce piena d’una grave tristezza. «Ho parlato a Nora Quain, e mi ha detto che non può soffrire quella ragazza. Turk non ha lasciato dubbi in proposito e quanto a me sai come la penso. C’è una ragione dietro tutto ciò, Will, che tu devi sapere.»

Barbee se ne stava seduto tutto impettito e piuttosto seccato, anche. Dopo tutto, scegliere le sue amiche non toccava né alla vedova di Mondrick né alla moglie di Sam Quain. Ma non disse nulla. Turk si stirò davanti al fuoco, tenendo sempre gli occhi fissi su Barbee.

«Quella donna è pericolosa», riprese la cieca, «e pericolosa soprattutto per te.» Si chinò su di lui, mentre strani riflessi rilucevano sui suoi antichi monili d’argento. «Devi promettermi, Will, che non la rivedrai mai più.»

«Ma, Rowena!», esclamò lui, cercando di assumere un tono scherzoso e, soprattutto, di non pensare alla confessione di April, la sera prima. «Non ti sembra che io sia maggiorenne già da molti anni?»

Ma la vecchia non sorrise.

«Io sono cieca, Will», e piegò un poco la testa canuta, come se vedesse dietro le lenti nere, «ma non a tutto. Ho partecipato all’attività di mio marito fin da quando ero ragazza. Ho avuto la mia piccola parte nella strana, solita­ria guerra terribile che lui ha combattuto per tanti anni. Ora è morto... assas­sinato, ho tutte le ragioni per crederlo.»