Ma la sua mente si rifiutava di lasciarsi deviare da quel genere di pensieri. Perché Mondrick e i suoi amici, che erano evidentemente in preda al terrore, avevano preso precauzioni così complesse all’aeroporto, per poi mostrare di non averne prese a sufficienza? Questo evidentemente indicava la presenza di un pericolo ancora più grande di quanto i quattro uomini avessero immaginato.
Gli occhi brucianti di Barbee a poco a poco avevano finito per chiudersi, mentre lui s’immaginava l’avvento del misterioso Figlio della Notte, il demoniaco profeta che avrebbe dato il via ai saturnali della rivolta. Vedeva un’alta figura imperiosa, ritta fra le rocce scheggiate di un fosco paesaggio alla Doré, terribile e cupo in una lunga tunica con cappuccio. Col fiato mozzo, Barbee si sporgeva a scrutare nell’ombra di quel cappuccio calato, nella speranza di riconoscere la faccia: e un candido teschio lo accoglieva col suo sogghigno.
Si destò di colpo; ma non era stata l’impressione di quel sogno ossessionante che lo aveva svegliato, bensì la fremente intensità di un nebuloso stimolo che non sapeva definire. Una trafittura ferma, sottile e tenace come uno spillone, lo tormentava alla nuca. Si versò un’altra dose di liquore per attenuarla. Aprì la radio, udì un untuoso comunicato commerciale e richiuse in fretta. Un sonno terribile lo colse...
E insieme la paura di dormire.
Non riusciva a capire quel vago terrore del letto. Una graduale, strisciante apprensione, come se sapesse che lo strano malessere che ora lo ossessionava lo avrebbe posseduto del tutto quando si fosse addormentato. Ma non era soltanto... paura. Frammisto a essa, c’era il desiderio rodente che lo aveva svegliato, l’ansiosa aspettazione d’una fuga oscura e trionfale da tutto ciò che odiava.
Né riusciva a capire bene ciò che provava per April Bell. Pensava che avrebbe dovuto sentire dell’orrore per lei. Dopo tutto, o era la strega che affermava di essere, o, più probabilmente, non era che una povera squilibrata. In un modo o nell’altro, aveva quasi certamente causato la morte di Mondrick. Ma ciò che gli faceva più paura era quel misterioso qualcosa che ridestava in lui.
Disperatamente, cercò di non pensare a lei. Ormai, era troppo tardi per telefonarle. E poi non era affatto sicuro di volerla vedere, sebbene quel vago desiderio interiore glielo facesse sospettare. Caricò la sveglia e se ne tornò a letto. Il sonno premeva su di lui con un’insistenza divenuta irresistibile.
April Bell lo chiamò.
La sua voce gli giungeva limpida, sopra il mormorio echeggiante del traffico. Era come uno squillo d’oro, più penetrante di un occasionale colpo di clacson o del lontano clamore di un tram. Giungeva dalle tenebre in onde di pura luce, verde come i suoi occhi di malachite. Poi gli parve di scorgerla, in distanza, come perduta nella città addormentata.
Soltanto, April non era più una donna. La sua voce insistente, vellutata, era umana. I suoi lunghi occhi erano gli stessi, con la loro obliquità orientale. Ma ora la pelliccia bianca faceva parte del suo corpo. Perché April era diventata una lupa bianca, agile, aggressiva, potente. E la sua limpida voce umana lo chiamava, distinta nelle tenebre.
«Vieni, Barbee, vieni, ho tanto bisogno di te!...»
Lui era consapevole di trovarsi nella sua povera camera, sentiva il ticchettìo della sveglia, la comoda durezza del materasso sotto il suo corpo, la puzza di zolfo che veniva dalle fabbriche vicine dalla sua finestra aperta. Era evidente che non dormiva del tutto, ma quella voce che lo chiamava era così reale che cercò di rispondere.
«Ciao, April», mormorò con voce dormiente, «domani, ti prometto che vengo davvero a trovarti. Chi sa, forse possiamo anche andare a ballare.»
Bizzarramente, la lupa parve udire.
«È ora che ti voglio, Barbee. Perché abbiamo una cosa da fare insieme... una cosa che non si può assolutamente rimandare. Devi venire subito a raggiungermi... Ti insegnerò come si fa a cambiare.»
«Ma io non voglio cambiare», mormorò lui a bocca chiusa.
«Lo vorrai anche tu. Tu hai la mia spilla di giada, vero? Ebbene, tienila stretta nella mano.»
Gli parve di alzarsi, sempre addormentato, a tentoni, e di andare verso il comò, a frugare nella scatola da sigari in cerca della spilla. Poi, tenendola stretta nella palma, tornò a buttarsi sul letto.
«Ora, Will», e la sua voce vibrante sembrava colmare il nero vuoto che li divideva, «ascoltami: tu devi cambiare, come sono cambiata io. Sarà facile per te, Will. Tu puoi correre come corre il lupo, seguire una preda come fa il lupo, uccidere come uccide il lupo!»
Sembrava essersi fatta più vicina, nella buia nebbia.
«Su, andiamo, ti aiuterò io, Will. Tu sei un lupo, e la tua guida è la spilla che hai nella mano. Abbandonati, lascia che il tuo corpo sfumi...»
Il suo cervello sembrava immerso in una foschia viscosa. Strinse la spilla, e cercò di obbedire. C’era come un lento, penoso fluire del suo corpo, come se si fosse attorto in posizioni mai assunte, tendesse muscoli mai usati. Un improvviso dolore lancinante lo soffocò, sprofondandolo in un abisso di tenebre.
«Resisti, Will.» La voce insistente di April sembrava trafiggere le tenebre opprimenti. «Abbandonare ora, che sei già in parte mutato, potrebbe ucciderti. Ma riuscirai. Io ti aiuto, fino a quando non sarai libero. Ecco, lasciati andare, lascia che il tuo corpo si trasformi, così... tu stai fluendo come una corrente...»
E a un tratto fu libero.
I ceppi che lo avevano oppresso per tutta la vita s’erano bruscamente spezzati. Balzò leggero dal letto, e rimase per un istante a fiutare gli odori che appesantivano l’aria del suo appartamentino: il sentore forte di whisky che saliva dal bicchiere vuoto sul comò, l’umidità saponosa della camera da bagno e il putrido odore della sua bianchiera nella cesta dei panni sporchi. Era un’atmosfera irreparabile, aveva bisogno d’aria pura.
Trotterellò rapido verso la finestra aperta e grattò con impazienza il chiavistello della persiana. Cedette, alla fine, e lui si lasciò cadere sulla terra umida dell’aiuola della sua padrona di casa. Si scrollò, fiutando con voluttà l’odore pulito di quel pezzettino di terra smossa e si diresse sul marciapiedi, nel sentore nauseante di benzina bruciata e gomma surriscaldata che si levava dall’asfalto della strada. Tese ancora l’orecchio al richiamo della lupa bianca e infine con un balzo si lanciò come una freccia lungo la strada.
Libero...
Non era più imprigionato in quel lento, goffo e insensibile corpo bipede. La vecchia spoglia umana gli era completamente estranea ora, gli sembrava quasi mostruosa. Quattro agili piedi erano senza dubbio meglio di due, e inoltre sembrava che una pesantissima cappa fosse stata tolta ai suoi sensi, che ne erano stati come ottenebrati.
Libero, forte, veloce!
«Sono qui, Barbee, vicino all’università», chiamava la lupa bianca, oltre la città addormentata. «Corri, ti prego!»
Si diresse per Commercial Street, verso lo scalo merci e l’aperta campagna, che si stendeva oltre il fascio di binari. A un tratto, si trovò davanti un poliziotto che faceva il suo turno di notte, ma con suo grande stupore l’uomo non lo vide, come se fosse stato trasparente.
Attraversò i binari, proprio davanti a una sbuffante locomotiva in manovra, e corse verso ovest, a lunghi salti, sulla strada maestra, per sfuggire al lezzo di caldo vapore, cenere e metallo ardente. Scese nel fossato accanto all’acre asfalto della strada, e la terra era fresca e umida sotto i cuscinetti delle sue zampe elastiche come molle.
In distanza, dietro un filare di alberi, un cane s’era messo ad abbaiare spaventato, ansimante. Annusò l’aria fredda e colse l’odore disgustoso del nemico atavico, vago per la distanza ma non per questo meno nauseante. Il vello che gli ricopriva il collo come una criniera si levò irto. Avrebbe insegnato ai cani a non ululare contro di lui.