«S’è fatto giorno, è tempo di ritornare a casa. Addio, Will.»
La vide allontanarsi trotterellando lungo il binario, e Barbee a un tratto si ritrovò solo. La fiamma che ardeva a oriente lo trafiggeva, e fu colto dal terrore di caderne vittima. Come ritornare? Disperatamente, si protese a tentoni verso il suo corpo.
Era solo vagamente consapevole del suo corpo, disteso, rigido e infreddolito, di traverso sul letto del suo appartamentino in Broad Street. Desiderò con tutto se stesso di possederlo, di muoverlo, come qualcuno che cerchi di svegliarsi da un sogno. Il primo sforzo fu debole e terribilmente doloroso, come se dipendesse da qualche facoltà mai usata prima d’ora. Ma il dolore stesso serviva da sprone. Ancora una volta sentì quello strano mutarsi, quel fluire della metamorfosi, e si levò a sedere tutto indolenzito sulla sponda del letto.
La piccola camera era divenuta gelida durante la notte e Barbee si sentiva tutto intirizzito. Una strana ottusità lo possedeva, come se tutti i suoi sensi si fossero attutiti. Fiutò l’aria in cerca di tutti gli odori e sentori così acuti per il lupo grigio, ma le sue nari d’uomo non raccolsero nulla. Perfino l’odore di whisky era sparito dal bicchiere vuoto sul comò. Dolorante di stanchezza, si avvicinò zoppicando alla finestra e sollevò la tapparella. La grigia luce dell’alba faceva impallidire i lampioni per la via, e lei si ritrasse di scatto dal cielo pieno di luce, come se fosse la terrificante faccia della morte.
Che sogno!
Si asciugò la fronte del freddo sudore che ancora la ricopriva. Un dolore tenace gli pulsava nel canino destro: la zanna, si ricordò con profondo malessere, che aveva battuto contro il collare di Turk. Se erano questi gli effetti di qualche dose troppo abbondante di liquore, si disse, era proprio meglio darsi all’astinenza.
Aveva la gola ruvida e secca. Si diresse zoppicando verso la stanza da bagno per bere un bicchier d’acqua e, allungando la sinistra verso il bicchiere, si accorse di tenere ancora stretta nella palma della mano destra la spilla di giada bianca. A bocca aperta, stette a guardarsi la mano intorpidita, e fu allora che si vide sul polso sottile un lungo graffio rossastro, là dove i dentini aguzzi di Grillo avevano morso, nel sogno, la zampa anteriore del lupo.
Nulla di troppo strano, in tutto questo, si disse, ricordando le dissertazioni di Mondrick, all’università, sulla psicologia dei sogni: certi fenomeni del subcosciente, diceva Mondrick, erano sempre meno straordinari e istantanei di quanto sembrassero al sognatore.
I suoi dubbi su April Bell, insieme con l’incredibile confessione della ragazza, lo avevano spinto durante il sonno ad alzarsi per andare a frugare nella vecchia scatola in cerca della spilla. Doveva essersi graffiato il polso con una di quelle lamette arrugginite, o forse con la spilla stessa. E tutto il resto non poteva essere che il suo sforzo inconscio di spiegare quel banale incidente, con l’abbondante materiale dei suoi desideri e dei suoi timori rimossi e sepolti nel subcosciente.
Così doveva essere! Con un sorriso di sollievo si sciacquò la bocca arida e poi allungò con bramosia la mano verso la bottiglia di whisky per versarsi un goccio che lo aiutasse a cominciare una nuova giornata di quella sua vita da cani... Fece una smorfia, ricordando il disgustoso odor di cane del sogno, e rimise con fermezza la bottiglia al suo posto.
9.
Provò a riaddormentarsi, ma i particolari del suo sogno lo ossessionavano talmente che dovette rinunciarvi e zoppicando tornò di nuovo alla finestra e l’aprì completamente alla cruda luce del giorno. Poi, disinfettata la misteriosa graffiatura e rasosi con gran cura, prese un’aspirina per addormentare il dolore che gli faceva il dente. Infine, visto che i dubbi e le apprensioni che gli causava l’incubo della notte non si placavano ai suoi vari tentativi di una spiegazione razionale, decise di telefonare a Rowena per accertarsi che fosse al sicuro nella sua casa col fedele Turk accanto.
Formò il numero con un indice ancora intorpidito, e per un bel pezzo nessuno rispose: forse, sperò, tutti erano ancora comodamente addormentati nel loro letto. Finalmente, la voce acuta della signora Rye, la direttrice di casa, gli domandò piuttosto di malagrazia che cosa volesse.
«Parlare alla signora Mondrick, se è già alzata.»
«La signora non c’è.»
«Eh!», sussultò Barbee, di colpo in preda al panico. «Datemi allora la signorina Ulford.»
«Non c’è nemmeno lei.»
«Ma... Ma dove...»
«È andata via anche lei con l’ambulanza, per assistere la povera signora Mondrick.»
Fu un miracolo se il microfono non gli cadde di mano.
«Ma che cosa è successo?»
«La signora, poverina, dev’essere quasi impazzita questa notte. Dopo il colpo terribile del marito, d’altra parte... E poi è sempre stata un po’ stramba, no? dopo che quella belva le tolse gli occhi, laggiù in Africa...»
Barbee inghiottì la saliva a fatica.
«Che cosa è successo, esattamente?»
«Si è alzata nel cuor della notte ed è uscita in strada con quell’enorme cane che si è incaponita a voler tenere. Secondo me, doveva essersi messa in testa di dar la caccia a qualcuno... a quello stesso leopardo, forse, che l’ha accecata. Fatto sta che è uscita con un tagliacarte d’argento, affilatissimo, ma per fortuna il cane s’è messo ad abbaiare, svegliando la signorina Ulford, che si è alzata e l’ha inseguita.»
Muto e atterrito, Barbee ascoltava.
«Poi il cane dev’essersi messo a correre, abbandonandola, ma la signora, povera cieca, l’ha inseguito fin dove ha potuto. La signorina l’ha trovata a una ventina d’isolati di distanza: incredibile per una donna della sua età, e cieca per giunta!»
La donna sembrava trovare una soddisfazione morbosa nel suo racconto.
«La signorina Ulford, più morta che viva lei stessa, è riuscita finalmente a riportare a casa la signora in un tassi. Sanguinava tutta perché s’era sbucciata, cadendo nel selciato, e sembrava che le avesse dato completamente di volta il cervello. Non voleva cedere quel pugnale affilato che aveva in mano, e hanno dovuto strapparglielo con la forza, mentre lei continuava a urlare non so che a proposito degli assassini che secondo lei il cane stava inseguendo. La signorina Ulford ha dovuto chiamare un’ambulanza e farla ricoverare a Glennhaven. Son venuti a prenderla un’ora fa, bisognava vedere come si divincolava e lottava con gli infermieri, povera donna, c’era pericolo che si ammazzasse!»
«Perché non voleva andare a Glennhaven?»
«Perché s’era messa in testa di andare a casa di Sam Quain. Era così frenetica, in proposito, che ho finito per telefonare al dottor Quain, ma la società telefonica mi ha detto che avevano dimenticato di riagganciare il microfono. Ora la signora è a Glennhaven e speriamo che si rimetta. Posso esserle utile in qualche modo?»
Barbee era impietrito, talmente impietrito, che non fu capace di rispondere.
«Pronto?», disse la donna. «Pronto?»
Lui non riuscì a trovare la voce e, impaziente, la signora Rye tolse la comunicazione. Barcollando, Barbee tornò nella stanza da bagno, si versò mezzo bicchiere di whisky, ma poi lo scaraventò, colto da un dubbio atroce, nel lavabo, senza assaggiarlo. Se il whisky lo aveva ridotto così, non doveva più berne una goccia.
La piccola signorina Ulford aveva fatto bene, si disse cocciuto, a far ricoverare la povera cieca in manicomio. La tragedia dell’aeroporto era stata per lei il colpo di grazia, e i suoi stessi timori sulla sua sanità mentale dovevano avere contribuito alla formazione di quell’incubo grottesco. Con tetra caparbietà decise di chiudere gli occhi alle troppo numerose coincidenze tra realtà e sogno, di non avventurarsi su quella strada che conduceva alla follia e su cui la stessa Rowena s’era spinta.