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«E i tuoi amici invece andarono in Mongolia?» Gli occhi verdi lo scrutavano penetranti.

«Quella stessa estate. Con la prima spedizione della Fondazione di ricerche antropologiche.»

«Ma almeno», disse, «voi quattro siete rimasti amici?»

Barbee annuì, perplesso.

«Sì, siamo amici. Serbavo un po’ di rancore a Mondrick che non aveva volu­to dirmi perché mi avesse tagliato fuori, ma non ho mai avuto il minimo screzio con Sam, o Nick, o Rex. Quando ci vediamo, ci trattiamo sempre con l’antica cordialità. I Quattro Mulattieri, ci chiamava Sam, quando partivamo per quelle spedizioni a dorso di mulo nel cuore del Messico, del Guatemala o del Perù. Se Mondrick ha detto loro perché non mi ha più voluto, loro non me ne hanno mai parlato.»

Barbee guardò con aria infelice sopra i capelli fiammeggianti della ragazza, nel freddo crepuscolo plumbeo, che ora palpitava tutto al rombo dell’aero­plano invisibile.

«Non sono mai cambiati», riprese. «Ma naturalmente la vita a poco a poco ci ha allontanati. Mondrick ne ha fatto un gruppo di specialisti nelle varie discipline delle sue “scienze dell’uomo”, addestrandoli alle ricerche di quel qualcosa nell’Ala-shan. Non avevano più troppo tempo da dedicarmi.»

Barbee s’interruppe di colpo.

«April Bell», le domandò bruscamente, come per metter fine a quei ricordi penosi d’una sconfitta, «come hai fatto ad avere il mio nome?»

Gli occhi di lei s’illuminarono d’una blanda ironia.

«E se fosse stata intuizione?»

Barbee fu scosso da un altro leggero brivido. Sapeva di possedere quello che si chiama “fiuto per le notizie”, una percezione intuitiva dei motivi uma­ni e degli eventi che ne derivano. Non era una facoltà che si potesse analizza­re o spiegare, ma sapeva che non era insolita. Molti giornalisti di successo la possedevano, anche se, in un’epoca scettica verso tutto quello che non fosse il più vieto materialismo meccanicistico, desideravano dar prova di buon sen­so rinnegandola. Il suo intuito, tuttavia, spesso gli si era rivelato utile: nei loro viaggi scientifici, prima che Mondrick lo mandasse a fare il giornalista, lo aveva guidato più d’una volta al rinvenimento di qualche interessante lo­calità preistorica, semplicemente perché sapeva, chissà come, dove una tor­ma di cacciatori selvaggi avrebbero preferito accamparsi, o scavare una tana, o preparare la tomba di un compagno.

Tuttavia quella facoltà incontrollabile era stata per lui più una maledizione che un vantaggio. Lo rendeva sempre troppo acutamente conscio di tutto ciò che la gente intorno pensava e faceva, lo teneva sempre troppo vigile e teso. Tranne quando beveva. Beveva troppo, e non ignorava che molti altri giorna­listi facevano altrettanto. Quella singolare sensibilità, ne era convinto, rappresentava buona parte del motivo.

Era stato forse quel vago intuito a farlo rabbrividire al suo primo scorgere April Bell, sebbene nulla in quei lunghi occhi caldi e quei capelli color di fiamma gli sembrasse ora temibile.

Le sorrise e cercò di vincere la sua istintiva apprensione. Indubbiamente il suo direttore le aveva fatto, nell’istruirla su come preparare il servizio, il suo nome. Con ogni probabilità, quella ragazza era solita infliggere le sofferenze di Tantalo agli uomini, con quel suo irresistibile miscuglio di candore e di malizia. Le incongruità più strane hanno sempre una spiegazione logica, quando si riesca a trovarla.

«E ora, Barbee, ti prego... dimmi, chi sono quelli?»

Indicò il gruppo di persone che stavano uscendo dal terminal. Un ometto fragile e minuto fece un gesto verso la cappa plumbea del cielo. Una bam­bina piccola gridò che voleva vedere meglio, e la madre la prese in braccio. Un’altra donna cieca veniva dietro tutti, guidata da un cane enorme, un fulvo pastore tedesco.

«Se hai un intuito così prodigioso,» fece Barbee, «perché mi fai delle do­mande?»

La ragazza gli sorrise di rimando.

«Andiamo, Barbee, è vero che sono tornata a Clarendon da poco, ma ho ancora molti amici qui, e poi il mio direttore mi ha detto che tu avevi lavora­to con Mondrick. Quel gruppo di gente laggiù deve essere venuta per acco­gliere gli esploratori. Sono sicura che tu li conosci. Perché non andiamo a intervistarne qualcuno?»

«Se ci tieni.» Barbee rinunciò a ogni idea di resistenza. «Andiamo.»

La ragazza infilò il braccio sotto il suo. Anche la pelliccia bianca, là dove gli sfiorava il polso, dava una strana sensazione elettrica. Quella ragazza eserci­tava uno strano fascino su di lui, che s’era creduto fino a quel giorno invulne­rabile alle donne. Ma la sua cordialità, insieme con quella strana sensazione di disagio che a tratti lo opprimeva, lo turbava più di quanto lui desiderasse dare a vedere.

La guidò entro il terminal, fermandosi a un tratto presso l’operatore della telescrivente per domandargli:

«È l’aereo di Mondrick?».

«Sta atterrando, Barbee.» L’operatore annuì, indicando un anemometro. «Con l’aiuto degli strumenti, praticamente un atterraggio alla cieca.»

Barbee non riuscì a vedere l’apparecchio, quando uscirono di nuovo e si spinsero fino all’estremità della pista di cemento; il rombo del motore sem­brava più fioco nella nebbia sempre più densa.

«Allora, Barbee», e la ragazza indicò col mento il gruppetto di persone in attesa, «chi sono?»

Barbee si chiese, rispondendole, perché mai la sua voce suonasse così incer­ta.

«Vedi quella signora alta col cane», cominciò, «quella che se ne sta un po’ appartata, con gli occhiali neri e il volto malinconico? È la moglie di Mondrick. Una cara, simpaticissima donna, e una pianista di valore, anche se cieca. Siamo sempre stati amici, fin da quando Sam Quain e io, per due anni, abbiamo alloggiato a casa sua, durante l’università. Vieni, ti presento.»

Ma la ragazza s’era fermata, fissando la donna.

«Così, quella è Rowena Mondrick?» La sua voce era scesa a un bisbiglio pieno d’intensità. «Che strani gioielli porta!»

Stupito, Barbee guardò meglio la cieca, che se ne stava eretta sulla persona, silenziosa e appartata da tutti. Come sempre, era vestita a lutto. Gli ci volle qualche istante per vedere i gioielli, semplicemente perché li conosceva trop­po bene. Sorrise:

«Quell’argento, dici?».

La ragazza annuì, osservando gli antichi pettini d’argento nei folti capelli bianchi di Rowena Mondrick, la broche d’argento sul collo dell’abito nero, i braccialetti d’argento massiccio e gli anelli, sempre d’argento, alle mani sotti­li, quasi da fanciulla, che trattenevano il cane. Perfino il collare dell’animale era irto di massicce borchie d’argento.

«Già, è strano», disse Barbee. «Non mi ero mai soffermato sulla passione di Rowena per l’argento. Diceva che le piace il tocco freddo di quel metallo... Sai, il tatto è importante per lei, nelle sue condizioni.» Guardò l’espressione ostile della ragazza. «Che c’è? sei arrabbiata?»

Lei scosse il capo:

«No», bisbigliò. «Solo che non posso soffrire l’argento.» Poi sorrise, come per farsi perdonare quel momento di malumore. «L’ho sentita nominare, ma non so niente di lei.»

«Credo che fosse infermiera psichiatrica a Glennhaven quando conobbe Mondrick. Parlo d’una trentina d’anni fa. Doveva essere molto bella allora. Mondrick la salvò da non so quale amore infelice e la interessò al suo lavo­ro.»

Con gli occhi sempre fissi sulla donna, la ragazza lo ascoltava con grande attenzione.

«Finì per diventare sua allieva», riprese Barbee, «e lo accompagnò in tutte le sue spedizioni, fino al giorno in cui perse la vista. Da allora, per vent’anni, è sempre vissuta tranquilla qui a Clarendon. Ha la sua musica e una cerchia molto ristretta di amici. Non credo che partecipi più alle ricerche del marito. Molti la considerano un po’ strana... Sai, dopo il modo in cui perse la vista...»