Si diresse rapidamente verso la porta.
«Un momento, Sam!», gridò il giornalista. «Se almeno potessi darmi una sola ragione convincente...»
Ma Sam Quain chiuse l’uscio di quell’enigmatica sala alle loro spalle e si avviò per il corridoio come se non lo avesse udito. Barbee cercò di seguirlo, ma la porta dell’ascensore gli sbatté in faccia. Sentendosi addosso lo sguardo di granito dell’uomo dietro il banco delle informazioni, si ritirò da quella severa torre divenuta la cittadella dell’inesplicabile.
Profondamente turbato, salì in macchina e ritornò in città. Guardò l’orologio, ma era ancora presto per andare a trovare April Bell. E, tutto sommato, il suo dovere sarebbe stato di lavorare per lo Star,dove la pratica Walraven lo attendeva in un cassetto del suo tavolo di redazione. Ma l’idea di fare di Walraven un uomo nuovo a beneficio dei suoi lettori lo nauseava, e improvvisamente capì che era Rowena Mondrick che doveva vedere al più presto.
Glennhaven occupava un centinaio di acri sulle colline sopra il fiume, a sei o sette chilometri da Clarendon. Alberi folti riparavano gli edifici della clinica con la ricca chioma che l’autunno aveva tinto d’un caldo color di rame.
Barbee entrò nella penombra discreta di un ampio vestibolo. Austero e opulento come il salone di una banca, sembrava un tempio dedicato al dio Freud, e la signorina snella seduta davanti a un centralino telefonico, al riparo d’una enorme scrivania di mogano, ne era la vergine sacerdotessa.
«Vorrei vedere la signora Rowena Mondrick», disse Barbee, dandole un biglietto da visita.
La ragazza si mise a sfogliare rapidamente un grosso registro di pelle nera, e gli rivolse un sorriso sognante.
«Mi dispiace, signore, ma non vedo ancora segnato il suo nome. Tutte le visite devono essere richieste in anticipo, attraverso il medico curante della clinica. Se desidera fare la domanda...»
«Ho bisogno di vedere la signora Mondrick immediatamente.»
«Temo che sia impossibile, signore.» Il sorriso della bella figliola era addirittura un paradiso artificiale e la sua voce una carezza nel dormiveglia. «Per oggi almeno. Se vorrà tornare...»
«Chi è il medico curante della signora?»
«Un istante, prego.» Le lunghissime dita d’avorio ripresero a scartabellare con grazia il nero registro. «La signora Rowena Mondrick è stata ricoverata stamane alle otto ed è in cura presso...» La voce della ragazza assunse una modulata intonazione di rispetto nel nominare non invano il dio del tempio: «Presso il dottor Glenn».
«Allora mi faccia parlare con lui.»
«Impossibile, signore», gorgheggiò la ragazza. «Il dottor Glenn riceve solo dietro appuntamento.»
Barbee fu lieto di ritrovarsi fuori, nella pura aria autunnale. Un altro tentativo era fallito, ma c’era ancora April da vedere, e al pensiero il cuore gli diede un balzo nel petto. Le avrebbe reso la spilla e in qualche modo sarebbe riuscito a scoprire se anche April Bell aveva sognato...
La vista della signorina Ulford, seduta su una panchina presso la fermata dell’autobus, interruppe il corso dei suoi pensieri. Fermò la macchina presso il marciapiede e le offrì il ritorno in città. La vivace donnetta accettò di buon grado.
«Avrei dovuto farmi chiamare un tassì», disse scivolandogli accanto nella macchina, «ma sono così sconvolta per la povera Rowena che non so più quello che faccio.»
«Come sta?»
«Gravemente agitata, questo è quanto il dottor Glenn ha scritto sulla sua cartella clinica. È ancora in preda a una crisi di nervi e non voleva assolutamente che me ne andassi, ma Glenn ha detto che era necessario e che le avrebbe dato dei sedativi.»
«Ma in che cosa consiste il suo disturbo?»
«Paura ossessiva, l’ha chiamata Glenn.»
«Di che cosa?»
«Ricorda che aveva la mania di coprirsi d’argento? Bene, stamane le abbiamo tolto i monili d’argento che porta sempre con sé, quando l’abbiamo medicata delle sbucciature che si era fatta cadendo. Non vi dico che cosa è successo, quando si è accorta di non averli più addosso. È stata colta da una tale crisi di terrore, che Glenn mi ha mandato a casa a prenderglieli. E come mi ringraziava, poverina, quando glieli ho portati! E poi», continuò la voce nasale della buona donnetta, «c’è l’ossessione per Sam Quain. Rowena dice che deve assolutamente vederlo, che deve dirgli qualcosa di molto importante, ma non vuole telefonargli, non vuole scrivergli, non si fida nemmeno di me per fargli sapere quello che le preme tanto. Mi ha pregato di andare da lui e convincerlo ad andarla a trovare al più presto, perché, dice, deve avvisarlo di qualche cosa. Ma naturalmente non può ricevere visite, finché si trova in quello stato.»
Era quasi mezzogiorno quando Barbee depositò la signorina Ulford davanti alla vecchia casa di University Avenue, e si affrettò a correre in redazione, dove si gingillò coi ritagli su Walraven fino al momento di telefonare al Trojan Arms.
Ma quando aveva già il microfono in mano, si accorse che tutto il suo entusiasmo per rivedere la ragazza dai capelli rossi era scomparso, sostituito da un inspiegabile senso di panico. Bruscamente, riattaccò il ricevitore.
Era l’ora di colazione, ma non aveva fame. Si fermò in farmacia, per farsi dare una dose di bicarbonato, e poi al Mint Bar per un bicchierino di whisky del Kentucky. Questo lo rianimò, e allora pensò di andare a trovare Walraven nel suo studio d’avvocato, nella speranza di dimenticare un’incertezza e un’angoscia che stavano diventando per lui un’ossessione come quella della povera Rowena.
L’uomo politico gli offrì con grande cordialità un altro whisky e cominciò a raccontare storielle sporche sui suoi avversari politici. Ma il buon umore del colonnello Walraven si dissipò quando Barbee alluse discretamente alle obbligazioni delle fognature cittadine; ricordò improvvisamente un impegno urgentissimo, e Barbee se ne tornò al suo tavolo di redazione.
Non riuscì a lavorare. Aveva un bisogno tormentoso di sapere che cosa Rowena Mondrick dovesse dire a Sam Quain. E una lupa dagli occhi verdi seguitava a fissarlo beffarda, nel mezzo del foglio bianco inserito nella sua macchina per scrivere. Era inutile continuare a temporeggiare così, si disse a un tratto. Si scosse di dosso quella irragionevole paura di April Bell, mentre riponeva ancora una volta nel cassetto la cartella di Walraven; e una nuova paura lo colse: d’avere atteso troppo a lungo.
Erano quasi le due: April doveva essere uscita da un pezzo, se lavorava veramente al Call. Salì in gran fretta sulla sua macchina, tornò a casa a prendervi la spilla e si lanciò a velocità pazzesca sulla North Main Street verso il Trojan Arms.
Non lo stupì la vista della grossa macchina di Preston Troy nel parcheggio dietro il residence. Una delle ex segretarie più lussureggianti di Troy, sapeva, occupava un appartamento all’ultimo piano. Barbee non si fermò al banco: non voleva avvertire April e darle così modo d’inventare altre storielle sulla zia Agatha. Non attese nemmeno l’ascensore e prese a salire le scale fino al secondo piano.
Neanche allora si stupì nel vedere la figura massiccia di Preston Troy precederlo nel corridoio: probabilmente, l’ex segretaria si era trasferita in un altro appartamento. Cominciò a guardare i numeri sulle porte degli appartamenti. Questo era il 2-A, e quello il 2-B; il prossimo doveva essere il 2-C...
E restò col fiato sospeso.
Perché Troy s’era fermato, davanti a lui, sulla soglia del 2-C. Barbee guardava a bocca aperta, immobile nel corridoio. L’uomo basso e tarchiato in doppio petto ben stirato e cravatta d’un rosso clamoroso non stette a perdere tempo a suonare il campanello o a battere con le nocche delle dita. Aprì la porta con una chiave che aveva in tasca. Barbee sentì l’ossessionante asprezza vellutata della voce intima, bassa di April Bell, e poi la porta si richiuse.