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Tornò incespicando verso l’ascensore e premette il bottone della discesa con furia selvaggia. Si sentiva pieno di nausea, come se avesse ricevuto un gran pugno nello stomaco. Era vero, si disse, che non aveva diritti di sorta su April Bell. Lei gli aveva parlato di altri amici, oltre alla zia Agatha. Era chia­ro che non poteva vivere in un residence del genere con quello che guada­gnava al giornale.

Ma Barbee era nauseato lo stesso.

11.

Tornò in redazione: non c’era altro da fare. Aveva deciso di non pensare più ad April Bell, e di cercare sollievo a tutte le crudeli perplessità che uscivano dalle ombre della sua mente a tormentarlo coi suoi antichi rimedi: lavoro sodo e whisky puro.

Riprese la cartella Walraven e batté d’un fiato un articolo sulle durezze patite nell’infanzia dal «Primo Cittadino di Clarendon», bellamente girando intorno ai fatti sordidi che bisognava omettere. Uscì poi per assistere a un comizio di cittadini indignati al grido di «Fermiamo Walraven!» e assunse un tono di garbata e signorile ironia per descriverlo nel modo in cui Grady dice­va che Troy lo voleva scritto: come una riunione cioè di gentaglia prezzolata da inconfessabili interessi.

Aveva paura di tornare a casa.

Cercò di non pensare alle ragioni per cui aveva paura, ma indugiò in crona­ca fino alla chiusura della terza edizione, e infine si fermò a bere qualche bicchierino con alcuni colleghi nel bar di fronte al giornale.

In realtà, aveva paura di andare a letto. Mezzanotte era passata da un pez­zo e lui trasudava whisky e stanchezza quando attraversò in punta di piedi l’anticamera scricchiolante della tetra casetta di Bread Street e salì nel suo appartamentino. Sentì a un tratto di odiare con rinnovato vigore quella casa dall’odore stantio, le tappezzerie sbiadite, i mobili brutti e miseri; di odiare il suo posto allo Star e le ciniche menzogne del suo articolo su Walraven; di odiare Preston Troy, e April Bell, e se stesso.

Stanco, solo e amareggiato, lo colse una gran pietà nei propri confronti. Non se la sentiva di scrivere tutte quelle immonde banalità che Troy esigeva dalla sua capacità di giornalista, e insieme non aveva il coraggio di piantare baracca e burattini. Era stato Mondrick che aveva distrutto la sua fiducia in se stesso, il suo orgoglio e il suo entusiasmo, anni prima, quando il rude scienziato aveva bruscamente spezzato la sua carriera di antropologo, senza volergliene dire la ragione. O tutto questo non era che un inutile piagnisteo, e il suo fallimento doveva essere attribuito solo alla sua incapacità? A ogni modo, la sua vita era ormai rovinata, distrutta. Non vedeva nessun avvenire davanti a sé... e aveva paura di coricarsi. Girellò per la stanza da bagno, e bevve ancora dalla bottiglia una lunga sorsata di whisky. Con la vaga speran­za che potesse dargli una spiegazione plausibile del suo sogno, prese uno dei suoi vecchi libri di testo dallo scaffale e cercò di leggere il capitolo sulla licantropia.

Il libro elencava le credenze primitive, stranamente universali, sulla possibi­lità da parte degli esseri umani di tramutarsi in pericolosi animali carnivori.

Scorse rapidamente la lista dei Lupi Mannari, orsi e giaguari umani, tigri, alligatori, squali, gatti umani, leopardi umani, e iene umane. Le tigri mannare della Malesia, lesse, erano considerate invulnerabili nella loro metamorfo­si; ma il linguaggio prudente, obiettivo, dell’autorevole accademico che aveva scritto l’opera appariva arido e monotono a paragone della realtà del suo sogno. Gli occhi cominciarono a bruciargli dolorosamente. Mise il libro da parte e se ne andò riluttante a letto.

Una tigre mannara, pensò pigramente, sarebbe stata una trasformazione piena di vantaggi. Quasi con invidia ricordò le caratteristiche della tigre prei­storica, dalle terribili zanne a forma di sciabola. Sonnecchiando, ruminò sul terribile potere di quella belva ormai estinta, dagli artigli tremendi e le spaventevoli zanne. E tutta la sua paura di addormentarsi si trasformò in un’ardente sete di vitalità e di forza.

Questa volta fu più facile. Il flusso della metamorfosi fu quasi indolore. Balzò a terra, presso il letto, muovendosi poi in quello spazio angusto con molle eleganza felina. Curioso, si volse a guardare la forma addormentata sotto le coperte, il magro e lungo corpo mortalmente pallido e immobile.

I suoi nuovi occhi vedevano tutto nella stanzetta con straordinaria chiarez­za, anche alla debole luce che filtrava, sotto la tapparella abbassata, dal lam­pione sull’angolo della strada. E improvvisamente si ricordò l’arte che April Bell gli aveva insegnato.

Nulla era assoluto in nessun luogo: soltanto le probabilità erano reali. La sua mente libera era un complesso eterno di energia, che afferrava atomi ed elettroni mediante la catena della probabilità. Quella rete mentale poteva cavalcare il vento o passare attraverso il legno o il metallo: unica barriera insormontabile, il mortale argento.

Fece uno sforzo per ricordare. La porta si fece nebbiosa. Il metallo della serratura e dei cardini apparve e si dissolse di nuovo.

Scivolò attraverso l’apertura, passò silenzioso per l’anticamera ove giungeva la respirazione della signora Sadouski e degli altri suoi inquilini. Anche la porta d’ingresso si dissolse sotto la sua volontà, dopo di che si mise, invisibi­le, a trotterellare verso il Trojan Arms.

April Bell gli venne incontro presso il minuscolo lago, orlato di ghiaccio, nel parco sull’altro lato della strada. Questa volta non gli apparve come lupa, ma come donna. Ma lui seppe, fin da quando la vide materializzarsi davanti alla porta dell’albergo, che si era lasciata dietro, addormentato, il suo vero corpo. Era completamente nuda, e i lunghi capelli le scendevano in onde scarlatte sopra i seni.

«Devi essere forte, Will, per assumere questa forma!»

C’era dell’ammirazione nella sua voce vellutata e nei suoi luminosi occhi verdi. Gli si fece accanto e lo grattò tra gli orecchi.

«Sono contenta che tu sia così forte», gli disse, mentre lui ronfava dal piace­re. «Perché non mi sento ancora bene: il tuo amico Quain mi ha quasi uccisa, con la sua trappola, la notte passata. E io stavo per chiamarti, Will, perché abbiamo un’altra missione da compiere stanotte.»

Lo spaventoso felino si frustò i fianchi con la coda con apprensione.

«Ancora?» Rivide la cieca Rowena cadere miseramente sull’orlo del mar­ciapiede e rivolse un sordo mugolio alla donna dai capelli rossi, ritta presso i suoi fianchi possenti. «Non voglio più.»

«Nemmeno io.» E si mise a titillarlo sotto le orecchie. «Ma ho scoperto che Rex Chittum è partito da Clarendon un’ora fa, con la macchina di Sam Quain. So che si propone di parlare alla radio, domani, dalla stazione dello State College. Temo che voglia concludere le dichiarazioni scientifiche co­minciate da Mondrick all’aeroporto. Dobbiamo impedirglielo, Will.»

«Un altro mio amico! No, Rex è un mio caro, vecchio amico!...»

«Tutti i tuoi cari vecchi amici sono esseri umani, Will. E perciò sono nemici spietati, temibili, del Figlio della Notte. Ricorrono a ogni risorsa della scien­za per scovarci e distruggerci. Dobbiamo servirci delle poche e deboli armi che possediamo. Non ti pare, Will?»

Chinò la testa formidabile, dominato. Perché quella era la sua vera vita, con lei vicina e la sua mano morbida che gli accarezzava il mantello fulvo, traendone faville. Il mondo in cui Rex Chittum era stato suo amico non era più che un lontano incubo di penosi compromessi e di mortale avvilimento.

«Allora andiamo», disse lei, salendogli in groppa: era senza peso per la sua nuova forza illimitata. Percorsero così Main Street fino a Center Street e proseguirono verso la campagna. La luna tramontava e nel cielo limpido e freddo brillavano le costellazioni autunnali. Ma anche alla blanda luce delle stelle Barbee poteva vedere tutto distintamente: ogni roccia e ogni cespuglio sui margini della strada.