L’auto, con le ruote ancora giranti e il motore acceso, fece tre capriole nel vuoto ai loro piedi e infine cozzò contro il pendio roccioso trenta metri più in basso. Con un fragore stridulo, s’appiattì, si spaccò, continuò in varie parti a rotolare, finché andò a sbattere contro un macigno, e là rimase immobile.
«Ecco, Barbee. La polizia non si accorgerà mai che la gola di Rex non è stata squarciata dal parabrezza infranto. Il circuito delle probabilità ha creato anche questa combinazione.»
Si scosse i lunghi capelli di fiamma lungo le spalle nude e si chinò a palparsi una caviglia. Il suo volto bianchissimo si contorse in una smorfia di dolore, mentre i suoi lunghi occhi verdi si volgevano a guardare la pallida immagine della luce zodiacale, che cominciava a sorgere nella cava oscurità del passo alle loro spalle.
«Mi son fatta male», mormorò, «e la notte è quasi al termine. Will, dovrai portarmi a casa.»
Barbee s’accasciò presso un macigno, per aiutarla a salire in groppa e riprese la strada in senso inverso, fin sul passo e per la lunga discesa che li avrebbe riportati a Clarendon.
Si sentiva stanco, colmo d’una sazietà che lo riempiva di tristezza. Tutto il folle orgasmo di poco prima lo aveva abbandonato. Aveva soltanto paura, una paura profonda della luce livida a oriente. Odiava la prigione angusta e squallida del suo corpo addormentato, ma doveva ritornarvi.
Si scrollò, zoppicando stancamente verso le prime luci dell’aurora, ma April protestò duramente. Barbee non riusciva a dimenticare l’ombra d’orrore che aveva visto negli occhi di Rex, quando si era voltato a guardare attraverso di lui, prima che le zanne lo colpissero, e non riusciva nemmeno a non pensare al dolore del vecchio Ben.
12.
Si svegliò che era già tardi. L’abbagliante fulgore del sole nella sua camera gli ferì gli occhi dolenti, e se ne ritrasse di scatto, prima di ricordarsi che il mortale potere della luce esisteva solo nel suo sogno. Un profondo malessere lo dominava. Una plumbea stanchezza gli dolorava per tutto il corpo e fitte lancinanti gli strinsero il cranio in una morsa di spasimo, quando si levò a sedere sul letto.
Traballando, si diresse verso la stanza da bagno, tenendosi la testa tra le mani. La doccia, quasi bollente prima e subito poi gelida, gli fece bene, attenuando in parte la feroce emicrania. Un cucchiaino di bicarbonato effervescente, rimescolato in un bicchier d’acqua, gli rimise anche lo stomaco a posto.
Ma la sua immagine allo specchio lo spaventò. Era d’un pallore cinereo, il suo volto, stiracchiato e dalla pelle cascante, mentre gli occhi affondavano nelle occhiaie livide e scintillavano come per febbre sotto le palpebre dagli orli arrossati. Cercò di sorridere, quasi a illuminare un poco la tetra stanchezza di quel volto, e le labbra esangui si torsero sardonicamente. Era la faccia d’un pazzo, quella, non di Will Barbee. Per l’ennesima volta, in quegli ultimi tempi, si disse che avrebbe fatto bene a smettere di bere e ad arricchire la sua dieta di vitamine, per disintossicarsi. Anche una buona rasatura avrebbe potuto giovare al suo aspetto spettrale, se soltanto fosse riuscito a non tagliarsi.
Stava preparando il rasoio quando squillò il telefono.
«Will?... Parla Nora Quain.» La voce della donna era piena di strazio. «Sii forte, Will. Sam mi ha chiamato pochi minuti fa dall’Istituto... è rimasto là a lavorare tutta la notte... per dirmi di Rex... Il povero Rex era partito stanotte per lo State College, nella nostra macchina. Forse andava a una velocità eccessiva... o era nervoso per il discorso che doveva fare alla radio. A ogni modo, la macchina si è rovesciata, sul passo di Sardis Hill. E Rex è morto.»
Il telefono scivolò di mano a Barbee. S’inginocchiò senza più forza e cercò il microfono a tastoni con dita bizzarramente intorpidite.
«È morto sul colpo, ha detto a Sam la polizia», continuava la voce di Nora. «Il vetro del parabrezza gli ha quasi staccato la testa dal collo. È una cosa terribile, e mi sento in certo qual modo responsabile. I freni non funzionavano troppo bene, e non ho pensato di avvertirlo...»
Barbee annuì nel microfono, silenziosamente. Lei stessa non poteva sapere quanto fosse terribile. Avrebbe voluto gridare, se la gola secca e dolente glielo avesse permesso. Chiuse gli occhi contro l’offensiva luce del giorno e gli parve di rivedere il volto bello e stanco di Rex, mentre si voltava a guardare attraverso la sua forma spettrale.
«...era tutto quello che aveva», continuava la voce piangente di Nora. «So che tu sei il suo migliore amico, Will. Per due anni ha atteso in quella sua edicola che Rex tornasse a casa. Non si rassegnerà troppo presto... Dovresti dirglielo tu, Will. Non credi?»
Barbee dovette inghiottire due volte, prima di rispondere in un roco bisbiglio:
«Sì, certo, glielo dirò io».
E, riattaccato il microfono, tornò barcollando nella stanza da bagno, dove prese la bottiglia e bevve tre lunghe sorsate di whisky. Il liquore lo rinfrancò e gli tolse, almeno per il momento, quel terribile tremito alle mani. Finì poi di radersi e, salito in macchina, si diresse verso il centro.
Il vecchio Ben Chittum aveva già aperto l’edicola, quando Barbee fermò la macchina presso il marciapiede, e stava appendendo alcune riviste sopra lo sportello. Nello scorgere Barbee gli sorrise cordialmente, mettendo in mostra le gengive sdentate.
«Ehi, Willy!», chiamò. «Che novità ci sono?»
Barbee scosse il capo, senza sorridere, muto.
«Sei impegnato, questa sera?» E, senza badare all’espressione addolorata del giornalista, lasciò le sue riviste e andò presso la macchina. «Te lo domando perché», ed estrasse la nera pipetta dal taschino rigonfio del camiciotto, «questa sera preparo un pranzetto speciale per Rex.»
Sempre muto, Barbee era sceso dall’automobile e ora, ritto sulle gambe che lo reggevano a stento, in preda a un malessere intollerabile, guardava il vecchietto che accendeva golosamente la pipa.
«A Rex è sempre piaciuto molto il mio stracotto di manzo e la mia focaccia di biscotti al miele, fin da quando era bambino, e ricordo che venivi spesso anche tu a mangiarli. Ci farai un gran piacere, Will, se verrai anche stasera. Ora telefono a Rex...»
Barbee si schiarì la voce.
«Purtroppo ho cattive notizie per te, Ben.»
La vitalità del vecchietto parve inaridirsi di colpo. Ansimò, fissò il giornalista e cominciò a tremare. La pipa gli scivolò dalle dita nodose e il cannello si spezzò sul marciapiede.
«Rex?», sussurrò.
Barbee inghiottì e fece un cenno affermativo col capo.
«Una disgrazia?»
«Sì, una disgrazia. Questa notte viaggiava in macchina sulle colline per conto dell’Istituto. E l’automobile è sbandata, su Sardis Hill. Rex è... morto. Ma non... non ha sofferto.»
Ben Chittum rimase a lungo con gli occhi fissi nel vuoto, che si andavano lentamente colmando di lacrime. Erano occhi neri come quelli di Rex, e quando si persero così nel vuoto sembrarono improvvisamente quelli di Rex mentre si voltava a guardare, in quel terribile sogno, sotto la minaccia delle zanne a forma di sciabola.
«Per questo avevo paura», disse il vecchio lentamente. «Nessuno di loro aveva la faccia giusta, quando sono tornati dalla spedizione. Ma Rex non ha mai voluto dirmi nulla. E ho ancora paura, Will...»
Il vecchio si chinò stentatamente, per raccogliere la pipa spezzata, e con dita tremanti cercò di riconnettere i due pezzi.
«Ho ancora paura», riprese, «perché penso che abbiano dissotterrato qualcosa in quel deserto che doveva restare sotto terra. Vedi, Rex mi disse un giorno, prima che partissero per l’ultima volta, che Mondrick andava in cerca dell’autentico Giardino dell’Eden, da dove è venuta la razza umana. Ho paura che l’abbiano trovato, Will... e che abbiano anche trovato cose che sarebbe stato meglio non trovare.»