Si ficcò i pezzi della pipa in tasca.
«Rex non sarà l’ultimo del gruppo a morire.»
I suoi neri occhi immobili tornarono lentamente a fissarsi su Barbee e solo allora parve accorgersi delle lacrime che li colmavano. Se li asciugò con un impaziente colpo di manica. Poi scosse il capo e se ne tornò zoppicando verso la sua fila di riviste ch’era rimasta mezza ciondolante sullo sportello dell’edicola. Barbee rimase ritto dove si trovava, troppo sconvolto per pensare ad aiutarlo.
«Rex andava pazzo per il mio stracotto di manzo», mormorò il vecchio. «E per la focaccia di biscotti al miele. Te ne ricordi, vero, Will? Fin da quando era piccolo.»
Come in sogno, chiuse l’edicola e Barbee lo portò all’obitorio. L’ambulanza non era ancora arrivata col cadavere, cosa che arrecò un certo sollievo a Barbee. Il giornalista lasciò il povero vecchio affidato alle cure affettuose di Parker, lo sceriffo di contea, e si diresse automaticamente verso il Mint Bar.
Due doppi whisky non sortirono l’effetto di attenuare la terribile emicrania che gli pulsava nel cervello. La giornata era troppo luminosa e quella nausea molliccia che da qualche tempo compariva improvvisamente era tornata a torcergli lo stomaco. Rivedeva continuamente gli occhi di Rex che si voltava sotto la minaccia spaventosa che incombeva su di lui, e un terrore freddo e senza fine s’impadroniva a poco a poco della sua anima.
Disperatamente, cercò di reagire. Cercò di muoversi, di ridere allegramente alla storiella di un altro cliente al banco del bar. L’uomo si trasferì a disagio su un altro seggiolino più lontano, e Barbee si accorse che il barista lo osservava con strana intensità.
Pagò, e uscì sulle gambe malferme nella gran luce della strada.
Aveva la febbre, era scosso da un brivido incessante e sapeva che non avrebbe potuto guidare. Lasciò la macchina e si fece portare da un tassi al Trojan Arms. La porta che nel sogno aveva visto sbarrata e attraverso la quale April s’era materializzata così facilmente era aperta, ora, e Barbee vi entrò rapido e barcollante e si buttò su per le scale prima che l’uomo dietro il banco riuscisse a fermarlo.
Un cartello era appeso sulla porta del 2-C con la scritta «Non disturbare», ma il giornalista picchiò vigorosamente. Se il Presidente si trova ancora qui dentro, pensò Barbee, farà bene a nascondersi sotto il letto.
April Bell era più affascinante e soave che mai in una vestaglia verde mare, più aperta e scollata di quanto fosse lecito. Aveva i lunghi capelli di fiamma sciolti sulle spalle e i suoi occhi verdi si accesero d’una luce brillante, quando riconobbero il giornalista. Le labbra non erano truccate.
«Oh, Will! accomodati!...»
Barbee sedette nella capace poltrona che lei gli indicava, accanto a una lampada da lettura. Il proprietario del giornale non sembrava essere nei pressi, ma la poltrona aveva tutta l’aria di essere quella riservata a Preston Troy... dato che ben difficilmente April Bell poteva trovare interessante la lettura dell’ultimo numero di Fortune,sul tavolinetto accanto, o apprezzare i sigari contenuti nell’astuccio d’oro massiccio che a lui sembrava di aver già visto in passato.
April si diresse con la morbida grazia felina del sogno verso il divano di fronte, per sedervisi, e Barbee ebbe l’impressione che zoppicasse lievissimamente.
«Ti sei fatto vivo, finalmente!», gli disse con la sua strana voce roca e melodiosa insieme. «Mi domandavo perché non avessi più telefonato.»
Barbee si premette le mani contro le gambe per dominare il tremito che le scuoteva. Aveva una gran voglia di chiederle un liquore, ma ne aveva già bevuti troppi e non sembrava che gli avessero dato il minimo sollievo. Si alzò bruscamente dalla poltrona che doveva essere di Preston Troy, inciampò nello sgabello e raggiunse con passo duro e legnoso l’altro capo del divano. I lunghi occhi della ragazza lo seguirono, vividi di un interesse lievemente malizioso.
«April», le disse con voce soffocata, «l’altra sera al Knob Hill mi hai detto di essere una strega.»
La ragazza gli sorrise beffarda.
«Poveri noi, Will, chiunque ti sentisse penserebbe che a uno di noi due abbia dato di volta il cervello. Non senti anche tu l’assurdità della cosa? Mi hai fatto bere troppi dacquari, l’altra sera, questa è la verità, e l’alcool accende la mia immaginazione...»
Barbee si strinse le mani con forza, per interrompere il tremito.
«Ho fatto un sogno, questa notte. Mi sembrava di essere una tigre...» Non era facile continuare, il sorriso di April rendeva le sue parole assurde e ridicole all’estremo. «E c’eri anche tu, con me. Abbiamo assassinato Rex Chittum sul passo di Sardis Hill.»
April inarcò impercettibilmente le sopracciglia.
«Chi è Rex Chittum?», domandò, mentre i suoi occhi verdi battevano con innocenza. «Ah, sì, me l’hai detto, è uno dei tuoi amici che hanno portato quella misteriosa cassa dall’Asia.»
Barbee s’irrigidì, accigliandosi all’indifferenza della ragazza.
«Ho sognato che l’ammazzavamo», gridò quasi, «e stamattina ho saputo che è morto!»
«È una cosa strana, ma non insolita», osservò lei con calma. «Ricordo di essermi sognata mio nonno, la notte che morì.»
La voce di April era carezzevole, piena di sfumature vellutate, ma lui continuava a sentirvi una punta lievissima di beffa. Le scrutò gli occhi: erano limpidi come laghi montani.
«È un pezzo che dovrebbero migliorare la curva di Sardis Hill», aggiunse April con tono distratto, e subito dopo, cambiando argomento: «Mi hanno detto, qui, che hai telefonato ieri mattina». Con morbida grazia si scosse il fiume di capelli rossi sulle spalle. «Come mi dispiace che tu non mi abbia trovata alzata.»
Barbee si mosse a disagio. Avrebbe voluto affondare le dita in quelle spalle di seta e trarne fuori la verità a scossoni... Ma forse quel tono impercettibilmente beffardo era frutto soltanto della sua immaginazione. Era livido di terrore... terrore di lei, o di qualche mostro annidatosi nelle profondità della sua anima? Si alzò bruscamente, cercando di nascondere il tremito che lo possedeva.
«Dovevo restituirti una cosa, April.» Lei lo guardò, incuriosita, e non parve notare il tremito della sua mano, mentre Barbee si frugava in tasca e ne traeva la spilla di giada, che le offerse poi sulla palma madida.
Lanciò un piccolo grido di delizia: «Oh, Will, la mia spilla perduta! La spilla di famiglia che mi aveva dato la zia Agatha! Non puoi immaginare quanto mi faccia piacere riaverla!».
Si mise a far girare la piccola lupa per le dita, e parve al giornalista che il minuscolo occhio di malachite lo guardasse ammiccando per un istante.
«Dove l’hai trovata?», gli chiese.
Barbee avvicinò il volto a quello della ragazza, guardandola nel bianco degli occhi:
«Nella tua borsa», rispose duro e reciso. «Infissa nel cuore di un gattino strangolato.»
Il corpo lungo e sottile di April rabbrividì nella vestaglia verde, come in finto orrore.
«Che cosa orribile! Sembri stranamente morboso, oggi, Will!» Lo scrutò con occhi limpidi. «Davvero, a guardarti meglio, si direbbe che non stai affatto bene. Vorrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che tu beva più di quanto il tuo organismo possa sopportare.»
Lui assentì con amarezza, pronto ad ammettere la sua disfatta nel gioco che stavano giocando; ammesso che la ragazza stesse giocando con lui una strana partita, e non fosse tutto immaginazione da parte sua.
«E la zia Agatha dov’è oggi?», domandò.
«È partita.» Alzò le belle spalle in un piccolo gesto di voluta indifferenza. «Dice che l’inverno qui a Clarendon la fa riammalare di sinusite ed è voluta tornare in California. L’ho accompagnata all’aereo ieri sera.»