Barbee, ritto davanti al divano, barcollò lievemente, e April gli si fece vicina, piena di sollecitudine.
«Davvero, Barbee», gli disse, «non credi che faresti bene ad andare da un medico? Io conosco bene il dottor Glenn, e so che ha rimesso completamente in sesto una quantità di alc... di gente che beveva troppo.»
«Non ti fare scrupoli», ribatté Barbee con asprezza, «dammi pure dell’alcolizzato, perché tanto è quello che sono.» Si avviò incerto verso la porta. «Forse hai ragione. È la semplice risposta a tutti i miei dubbi, la più semplice e convincente... Credo che andrò proprio a farmi visitare da Glenn.»
«Ma non andartene subito», pregò April, correndogli innanzi, per mettersi davanti alla porta... e ancora lui ebbe l’impressione che zoppicasse impercettibilmente, proprio con la stessa caviglia che le doleva nel sogno. «Non ti sei mica offeso, vero?», aggiunse con dolcezza. «Il mio voleva solo essere un consiglio, nello spirito più amichevole.»
Ma il senso della sua stanchezza, della sua inettitudine a ogni cosa, anche a risolvere l’enigma di April Bell, e il desiderio insopprimibile di lei, così remota e beffarda, lo spinsero ad andarsene, a fuggire di là pieno di vergogna.
«Vieni un momento in cucina», gli stava dicendo. «Lascia che ti faccia una tazza di caffè e prepari un po’ di colazione per tutti e due, se hai voglia di mangiare qualche cosa. Ti prego, Will... un po’ di caffè ti farà bene.»
Ma lui scosse il capo quasi con rabbia, non voleva che lei si facesse beffe di un vinto, gongolasse sulla sua anima tormentata.
«No», disse. «Devo andare.»
Doveva avere notato l’espressione con cui Barbee aveva visto il numero di Fortune e l’astuccio dei sigari presso la poltrona che aveva pensato appartenesse a Troy.
«Almeno, accetta un sigaro», lo pregò con soavità. «Li tengo per gli amici.»
Si mosse con la sua grazia felina verso l’astuccio e questa volta Barbee fu certo che zoppicasse; e impulsivamente le domandò: «Ti sei fatta male alla caviglia?».
«Sì, ho inciampato per le scale, dopo avere accompagnato mia zia all’aeroporto.» Alzò le spalle, offrendogli l’astuccio dei sigari aperto. «Nulla di grave, a ogni modo.»
Era grave, invece, e la mano magra di Barbee cominciò a tremare sulla scatola dei sigari con una tale violenza che April dovette prendere lei uno dei neri e forti Perfectos e spingerglielo fra le dita. Mormorando qualche parola di ringraziamento, si avviò incespicando verso la porta.
Ma nonostante il suo turbamento era riuscito a leggere il monogramma inciso sull’astuccio d’oro: una P e una T intrecciate. E il sigaro era della stessa marca straniera che Troy gli aveva offerto ultimamente dopo averlo chiamato nel suo ufficio.
Barbee aprì la porta a fatica, cercò di allontanare dal proprio volto l’espressione di amaro risentimento che sentiva e si voltò per salutare la ragazza. Lei lo stava guardando, ritta sulla soglia, col fiato sospeso. Forse la luce oscura dei suoi occhi era soltanto pietà, ma lui vi scorse uno scintillio segreto di sarcasmo. La vestaglia verde s’era dischiusa ancora un po’, rivelando la pelle candida, e la sua bellezza lo ferì come una lama che gli attraversasse le carni. Le pallide labbra di lei gli rivolsero un piccolo sorriso, mentre gli dicevano:
«Will, non te ne andare! Ti prego, Will...».
Ma lui se n’era andato. Non poteva sopportare la pietà che vedeva, o il sarcasmo che immaginava; quel grigio mondo di dubbio e di sconfitta e di sofferenze era diventato troppo forte per lui.
Per le scale, scaraventò il sigaro per terra e lo stritolò sotto il piede, e senza preoccuparsi dell’uomo dietro il banco, giù nel vestibolo, uscì dalla porta col suo passo barcollante. Sì, pensò ad alta voce, forse ha ragione, forse l’unica cosa da fare è andare dal dottor Glenn.
Non aveva nessuna simpatia per istituti psichiatrici e simili, ma Glenn godeva fama nazionale e il giovane dottor Archer Glenn, come già suo padre, era riconosciuto come un eminente pioniere della nuova psichiatria. Time,ricordò Barbee, aveva dedicato tre colonne alle sue ricerche nel campo della correlazione tra anomalie fisiche e anomalie psichiche e alle sue brillanti innovazioni, quando prestava servizio nella Marina durante la guerra, alla rivoluzionaria tecnica psichiatrica della narcosintesi.
Come già il padre, Glenn, sapeva Barbee, era un convinto materialista. Il vecchio Glenn era stato grande amico del famoso Houdini, e fino alla morte la sua passione dominante era stata l’osservazione e lo smascheramento dei falsi medium, astrologi e veggenti d’ogni specie.
Il figlio continuava la campagna paterna: Barbee era stato a sentire varie sue conferenze per conto dello Star,conferenze in cui il giovane scienziato aveva attaccato ogni culto pseudoreligioso fondato su spiegazioni pseudoscientifiche del soprannaturale.
La mente, secondo il motto di Glenn, non era che una funzione squisitamente corporea. Quale migliore alleato?
13.
La clinica sorgeva a qualche distanza dalla strada, riparata da una gaia cortina di foglie giallo-rosse dell’autunno, mentre i suoi vari edifici apparivano bianchi e severi al di là del fogliame. Barbee, vedendoli, cercò di scacciare la sensazione di angoscia che sempre provava alla vista di qualunque edificio che potesse ricordargli un manicomio. Quelle austere fortezze, si disse, erano cittadelle di sanità ed equilibrio contro gli ignoti terrori della mente.
Fermò la macchina nello spazio ricoperto di ghiaia dietro l’edificio principale e si avviò a passo rapido lungo un lato dell’edificio verso l’ingresso. Guardando attraverso la siepe altissima che cingeva il prato che si stendeva dall’altra parte, Barbee scorse una paziente camminare eretta fra due infermiere vestite di bianco. Rimase col fiato mozzo.
La paziente era Rowena Mondrick.
Vestita d’un pesante abito nero a protezione dai rigori dell’aria, portava guanti neri e una sciarpa nera sui capelli bianchissimi. Le sue lenti brune parvero fissarsi minacciosamente sul giornalista. Barbee ebbe l’impressione che sussultasse e si fermasse per un istante.
Ma già aveva ripreso la sua passeggiata dignitosa e fiera, tra le due infermiere, come se fosse sola. Colto da una pietà devastante, Barbee sentì il bisogno invincibile di parlarle: la sua mente malata, si disse, poteva ancora contenere le risposte alle mostruose domande che lo tormentavano. La verità, pensò, avrebbe potuto liberare entrambi.
La cieca e le due infermiere si stavano allontanando da lui ora, si dirigevano a passo lento verso il gruppo di alberi che formava una specie di boschetto presso il fiume. Corse loro dietro, col cuore che gli martellava nel petto.
«...il mio cane?», stava dicendo Rowena, la voce colma di angoscia. «Non mi è permesso nemmeno chiamare il mio povero Turk?»
Una delle due infermiere, la più alta, le prese il braccio ossuto.
«Può chiamarlo, signora Mondrick, se lo desidera», le rispose pazientemente, «ma non servirà a nulla, mi creda. Le abbiamo già detto che il cane purtroppo è morto, e che quindi sarà meglio per lei non pensarci più.»
«Non è vero!», rispose Rowena con voce querula, acuta. «Non ci credo, e ho bisogno d’avere il mio cane qui con me. Vi prego di chiamare al telefono la signorina Ulford e dirle a mio nome di mettere un avviso su tutti i giornali promettendo una ricompensa molto elevata.»
«Non servirà a nulla», ribatté sempre con molta dolcezza l’infermiera più alta, «perché un pescatore ha trovato il corpo del cane ieri mattina nel fiume, presso il ponte della ferrovia. Ha portato il collare d’argento alla polizia. Glielo abbiamo detto ieri sera, non ricorda?»
«Me lo ricordo, ma io ho bisogno lo stesso del mio povero Turk, che mi protegga quando verranno per assassinarmi durante la notte.»