«Come successe?»
«Si trovavano nell’Africa occidentale», disse piano Barbee, pensando con rimpianto ai giorni lontani in cui anche lui aveva preso parte a spedizioni in terre remote, in cerca di frammenti del passato. «Credo che Mondrick stesse cercando le prove che l’uomo moderno ha cominciato a evolversi in Africa... Questo molti anni prima delle sue spedizioni in Mongolia. Con l’occasione Rowena cominciò a raccogliere dati etnologici sulle tribù della Nigeria di alligatori umani e uomini-leopardo.»
«Uomini-leopardo?» Gli occhi verdi di April parvero socchiudersi, farsi quasi neri. «Che cosa sono?»
«Membri d’un culto segreto, cannibalistico, che secondo le leggende sarebbero capaci di trasformarsi in leopardi.» E Barbee sorrise all’attenzione con cui April lo ascoltava. «Rowena, capisci, voleva scrivere un libro sulla licantropia. La credenza, comune a molte tribù primitive, che certi individui possano trasformarsi in lupi e altre belve.»
«Oh!»
«Gli animali sono di solito scelti tra i più feroci della regione dove domina questa superstizione: orsi nei paesi nordici, giaguari nel bacino del Rio delle Amazzoni, lupi in Europa... I contadini della Francia medievale, per esempio, vivevano nel terrore del loup garou,il Lupo Mannaro. Leopardi o tigri, invece, in Africa e in Asia. Non si comprende come questa credenza possa essersi diffusa in tutte le parti del mondo.»
«Molto interessante.» La ragazza sorrise obliquamente, come per una segreta soddisfazione. «Ma come fu che Rowena Mondrick divenne cieca?»
«Erano accampati nell’interno della Nigeria in una regione che aveva visto pochissimi uomini bianchi, e Rowena aveva cercato di conquistare la fiducia degli indigeni, che tempestava di domande sui loro riti. Cercava di collegare gli uomini leopardo delle tribù cannibali con gli spiriti-leopardo degli stregoni Lhota Naga dell’Assam e gli “spiriti dei boschi” di certe tribù amerinde. Troppe domande, a detta di Mondrick, perché i loro portatori cominciarono a mostrarsi impauriti e l’avvertirono di guardarsi dagli uomini-leopardo. Ma Rowena non diede loro ascolto, e le sue ricerche la spinsero fino a una valle che gli indigeni consideravano tabù. Vi trovarono manufatti che interessarono notevolmente Mondrick, e stavano trasferendo l’accampamento nella valle, quando avvenne la tragedia. Percorrevano una pista nella foresta, di notte, quando un leopardo nero balzò su Rowena da un albero... Era un leopardo vero e proprio, naturalmente, non un indigeno vestito di una pelle di leopardo; ma la coincidenza apparve anche troppo significativa per la superstizione dei portatori, che fuggirono da tutte le parti. La belva ebbe Rowena sotto le zanne prima che le fucilate di Mondrick riuscissero a farla scappare. Le ferite risultarono gravissime e naturalmente si infettarono; la poveretta, quando il marito finalmente poté raggiungere una specie di ospedale, era in fin di vita. Fu la loro ultima spedizione in Africa: lei era ormai cieca e non poteva più viaggiare, e lui doveva avere ormai abbandonato la teoria che l’homo sapiens fosse originario dell’Africa. Dopo tutto, poveretta, non c’è da meravigliarsi che appaia un pochino strana, non ti sembra? L’aggressione di quel leopardo fu piuttosto ironica...»
Guardando il volto teso e bianco di April, fu colpito dall’espressione che vi colse: un’espressione come di crudele esultanza. O forse era soltanto un effetto delle luci smorzate del crepuscolo? Lei sorrise, cogliendo la sorpresa nei suoi occhi.
«Sì, c’è una strana ironia in quel dramma», osservò con indifferenza. «La vita gioca tiri bizzarri a volte.» La sua voce si fece grave. «Dev’essere stato un colpo terribile.»
«Senza dubbio, ma Rowena è una donna straordinariamente forte. Nessuna autocommiserazione. Molto coraggio. Frequentandola, ci si dimentica che sia cieca.» Prese la ragazza per il braccio. «Vieni, sono sicuro che ti piacerà.»
Il gattino nero, sempre affacciato all’orlo della borsetta, ammiccò con gli enormi occhi azzurri. April Bell si ritrasse:
«No, Barbee!», bisbigliò. «Ti prego di non...»
Ma già Barbee aveva fatto qualche passo avanti e annunciava a gran voce:
«Rowena! Sono Will Barbee. Il giornale mi ha mandato qui per tuo marito. Permettimi di presentarti una collega, April Bell...».
La cieca aveva voltato bruscamente il capo al suono della sua voce. Prossima alla sessantina, la moglie di Mondrick conservava una snellezza giovanile. Le dense onde dei suoi capelli, Barbee le aveva viste sempre bianche, ma il volto, colorito ora dall’eccitazione e dalla temperatura pungente, era roseo e liscio come quello di una giovanetta. Abituato a vederli, Barbee non badò agli occhiali dalle lenti d’un nero opaco.
«Oh, salve, Will!», disse la cieca con voce calda e musicale. «È sempre un piacere conoscere i tuoi amici.» Si passò il corto guinzaglio del cane nella mano sinistra, e porse la destra. «Molto lieta, signorina Bell. Come sta?»
«Bene». La voce di April era dolcemente remota, e lei non accennò minimamente a prendere la mano che la cieca le porgeva. «Grazie.»
Arrossendo, Barbee tirò con forza la manica della ragazza, che si ritrasse di scatto. Vide che le sue guance s’erano fatte livide, in forte contrasto con il rosso violento della bocca. Socchiusi, quasi neri, i suoi occhi fissavano ancora i pesanti braccialetti d’argento di Rowena. Confuso, Barbee cercò di salvare la situazione.
«Stai bene attenta a quello che dici», avvertì Rowena in un tentativo di far dello spirito, «perché April lavora per il Call e stenografa ogni parola che la colpisca.»
La cieca sorrise, con grande sollievo di Barbee, come se non si fosse accorta della scortesia di April Bell. Chinando il capo da una parte, per tendere l’orecchio verso il rombo che riempiva il cielo, domandò ansiosamente:
«Non sono ancora atterrati?».
«No», rispose Barbee. «Ma è questione di minuti.»
«Dio sia lodato», sospirò la donna. «Sono stata così in pensiero, questa volta, fin dal giorno che Marck è partito. Non sta bene, e continua a correre rischi sempre più gravi.»
Le sue mani sottili furono scosse da un tremito, notò Barbee, e strinsero il guinzaglio del cane con forza così convulsa che le nocche divennero livide.
«Ci sono cose sepolte che devono restare sepolte», sussurrò poi. «Ho fatto di tutto perché Marck non tornasse a quegli scavi di Ala-shan. Avevo paura di ciò che avrebbe potuto trovarvi.»
April Bell stava ascoltando attentamente, e Barbee la udì trattenere il fiato.
«Lei», mormorò, «aveva paura?» La sua penna, puntata sul minuscolo taccuino, ebbe un fremito. «Che cosa temeva che il suo famoso marito potesse trovare?»
«Niente!», si affrettò a rispondere la cieca, come spaventata. «Proprio niente!»
«Me lo dica», insistette la ragazza duramente. «Tanto vale che me lo dica perché credo di poter già indovinare...»
La sua voce sommessa si ruppe in un urlo soffocato, e lei indietreggiò barcollando. Il guinzaglio del cane lupo era scivolato tra le dita della cieca, e silenziosamente l’enorme cane si spingeva verso la ragazza spaurita. Barbee cercò di tenerlo lontano con un calcio, ma il cane lo superò, digrignando ferocemente i denti.
Barbee si girò fulmineo e afferrò il guinzaglio. La ragazza aveva alzato le braccia istintivamente. La sua borsetta di coccodrillo, scagliata lungo una parabola fortuita, le salvò la gola dalle fauci rabbiose. Sempre ferocemente silenzioso, l’animale tentò di balzare ancora, ma Barbee stringeva ormai saldamente il guinzaglio.
«Turk!», chiamò Rowena. «Turk, a cuccia!»
Docilmente, sempre senza un ringhio o un brontolio, il grande cane da pastore trotterellò verso la sua padrona. Barbee restituì il guinzaglio alla cieca, che lo cercava brancolando con la mano, e Rowena si trasse accanto la bestia, che aveva il pelo irto.