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«Grazie, Will», disse calma. «Spero che Turk non abbia fatto male alla tua signorina Bell. Ti prego di farle tutte le mie scuse.»

Ma non rimproverò l’animale, notò Barbee. Il bestione restò immobile ac­canto alla gonna nera della donna; digrignando silenziosamente i denti, e fissava April con i minacciosi occhi gialli. Pallida e tremante, la ragazza si stava ritraendo verso la sala d’aspetto.

«Quel dannato cagnaccio!» Una donna piccola e magra, dal profilo sottile, si staccò dal gruppo più avanti e si mise a dire con voce querula: «Ha visto, signora Mondrick, che avevo ragione a consigliarle di non portarlo? Sta di­ventando feroce. Finirà per ammazzare qualcuno!»

La cieca accarezzò con calma la testa del suo cane; poi, preso il collare nella mano, passò le dita sopra le grosse borchie d’argento. A Rowena, ricordò Barbee, era sempre piaciuto straordinariamente l’argento.

«No, signorina Ulford», rispose dolcemente; «Turk è stato addestrato a di­fendermi, e io lo voglio sempre con me. Non si avventa mai su nessuno, a meno che non si tenti di farmi del male.» Tese ancora l’orecchio al rombo lontano. «Non è ancora atterrato l’aereo?»

A Barbee non era parso che April avesse fatto alcun gesto minaccioso. Stupito, tornò al fianco della ragazza dai capelli rossi, che stava accarezzan­do il gattino nero e gli mormorava dolcemente:

«Buono, buono, piccolino, quel cagnaccio cattivo non ci vuol bene, è vero, ma noi non abbiamo paura...»

«Sono dolente dell’accaduto», le disse Barbee impacciato. «Non avrei mai immaginato che potesse accadere una cosa simile.»

«Colpa mia, collega», gli sorrise April. «Non avrei dovuto portare il povero Fifi così vicino a quella specie di belva.» Gli occhi verdi lampeggiarono. «E grazie per averla trattenuta per il guinzaglio.»

«Turk non si è mai comportato così», rispose il giornalista. «La signora Mondrick ti fa le sue scuse...»

«Sì?» April Bell osservò di traverso la cieca, con occhi privi di qualsiasi espressione. «Non parliamone più. L’aereo sta atterrando, e tu non mi hai ancora detto nulla degli altri.» E accennò col mento al gruppetto di persone, da cui la signora Mondrick stava un poco appartata quando le si erano avvi­cinati.

«Quella donnetta piccola e magra è la signorina Ulford, governante di Ro­wena; ma siccome sta sempre male, è Rowena che praticamente la assiste.»

«E gli altri?»

«Il vecchio che si sta accendendo la pipa è Ben Chittum, nonno di Rex e suo unico parente. Ha un’edicola-libreria in fondo a Center Street, proprio di fronte al palazzo dello Star. È lui che ha permesso a Rex di fare l’universi­tà, finché Mondrick non gli ha procurato una borsa di studio.»

«E gli altri?»

«L’uomo infagottato in quel cappotto che gli tocca i piedi è il padre di Nick Spivak, e la donna bruna dalle arie regali è la madre. Hanno una sartoria a Brooklyn, e Nick è il loro unico figlio. Sono stati molto in ansia, da quando Nick è partito per la spedizione. Mi hanno scritto decine di lettere chieden­domi se sapessi qualche cosa. Hanno preso l’aereo stamane; forse Nick li ha avvertiti con un telegramma. Gli altri sono amici, colleghi dell’Istituto, il professor Fisher della facoltà di antropologia dell’università, e il dottor Bennett, che ha sostituito Mondrick durante la sua assenza.»

«Chi è quella bionda procace?», domandò April improvvisamente. «Se non sbaglio ti sta sorridendo.»

«È Nora», rispose Barbee a bassa voce. «La moglie di Sam Quain.»

Aveva conosciuto Nora la stessa sera in cui l’aveva conosciuta Sam, a una festa di studenti a Clarendon. Quattordici anni non avevano offuscato la luce cordiale dei suoi occhi; sorridente, ora, la matura madre di famiglia in attesa del marito appariva altrettanto entusiasta quanto la matricola di allora, ecci­tata dal primo contatto con il mondo universitario.

Barbee andò verso di lei con April Bell, e Nora a sua volta venne loro incontro, tenendo per mano la sua piccola Patricia, una bimba di cinque anni.

«Nora, ti presento April Bell, della redazione del Call. Attenta a quel che dici, perché ogni tua parola potrebbe essere citata sul giornale contro di te.»

«Barbee, che fama!», protestò April con una risatina un po’ leziosa. Ma quando gli occhi delle due donne s’incontrarono, Barbee ebbe la sensazione che stesse scoppiando un incendio. Con un sorriso angelico si strinsero la mano.

«Oh, cara, sono così felice di conoscerla!»

Si odiano, pensò Barbee, si odiano con tutta l’anima.

«Mammina!», esclamò la piccola Pat con calore, «voglio carezzare il micio!»

«No, tesoro, sii brava...»

Nora tirò verso di sé in gran fretta la bimba, ma la manina rosea s’era già tesa verso il gatto. Che, soffiando e ammiccando, graffiò fulmineo. Soffocan­do coraggiosamente un singhiozzo, Pat si strinse alla gonna della madre.

«Oh, signora Quain», gemette April Bell, «quanto mi dispiace!»

«Tu non mi piaci», dichiarò Pat in tono di sfida.

«Guardate», esclamò il vecchio Ben Chittum, tutto eccitato, indicando con la pipa un punto nella nebbia, oltre le vetrate. «Sta’ atterrando in questo momento!»

Tutto il gruppo uscì in gran fretta, seguito a qualche passo di distanza da Rowena Mondrick, fiera, diritta e silenziosa. Sembrava del tutto sola, sebbe­ne avesse al fianco la piccola signorina Ulford, che la guidava tenendola per un braccio; all’altro lato le camminava il suo gigantesco cane biondo. Barbee le lanciò un’occhiata, ma il pallore estremo del suo volto, che sembrava com­battuto tra la speranza e un terrore senza nome, lo costrinse a volgere in gran fretta gli occhi altrove. Si accorse di essere rimasto solo con April Bell.

«Fifi, sei stato molto cattivo», diceva la ragazza, accarezzando la testa del gattino. «Hai rovinato la nostra intervista!» E a Barbee: «Scusami, sai, per Fifi...».

«Niente di male», disse lui; «ma perché te lo sei portato dietro?»

Il verde di quegli occhi indescrivibili s’incupì ancora una volta fino a farsi quasi nero, mentre la loro espressione diveniva intensa, come se una paura segreta ne dilatasse le pupille. In quegli occhi, Barbee lesse una disperazione mortale, come se quella ragazza stesse giocando una partita difficile e ri­schiosa.

Ma ecco che, l’istante dopo, il volto della ragazza sorrideva di nuovo, men­tre lei aggiustava il nastrino rosso del micio.

«Fifi non è mio, ma della zia Agatha», spiegò. «Io per ora abito da lei. Oggi siamo uscite insieme, e siccome la zia doveva fare delle spese mi ha lasciato il gattino. Ma abbiamo appuntamento nella sala d’aspetto, qui. Vado anzi a vedere se è venuta, così potrò liberarmi di questa belvetta.»

Scappò via, e Barbee ne seguì con lo sguardo la figura esile ed elegante allontanarsi con passo elastico, pieno di grazia. Anche il suo modo di cammi­nare lo affascinava. Sembrava l’incedere di un animale selvaggio.

Si avvicinò a Nora Quain e al gruppetto presso il termine della pista di cemento, dove la sagoma confusa del grosso apparecchio passeggeri era cala­ta e si avvicinava rallentando. Barbee si accorse di sentirsi stanco, snervato: probabilmente da qualche tempo lavorava troppo. Ecco perché una ragazza, sia pure insolita come April Bell, poteva averlo turbato tanto.

Nora Quain distrasse la sua attenzione dall’aereo in arrivo per chiedergli:

«È importante per te quella ragazza?».

«L’ho appena conosciuta.» Barbee esitò, perplesso. «Ma mi sembra un tipo... insolito.»

«Cerca di non farla diventare importante», disse Nora, con un tono di im­plorazione insistente nella voce. «Quella ragazza è una...»

S’interruppe, come esitando a pronunziare la parola adatta per definire April Bell. Non sorrideva più, ora, e istintivamente la sua mano si tese a trarre la piccola Pat al suo fianco. Ma non pronunziò la parola.