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— Anche sulla Terra — aggiunse Frigate. — Prima del 2002 si ricavava già il ferro dall’energia pura, ma era un processo complicatissimo e costosissimo, con un risultato pressoché microscopico.

— Bene — commentò Burton. — Tutto ciò a noi non è costato nulla. Per ora, almeno…

Rimase per un attimo in silenzio, pensando al sogno che aveva fatto poco prima di ridestarsi.

— Paghi — aveva detto Dio. — Lei è in debito per la carne.

Che cosa significava questo? Sulla Terra, a Trieste, nel 1890, morente tra le braccia di sua moglie, aveva chiesto… Che cosa? Cloroformio? Qualcosa. Non riusciva a ricordare. Dopo di che l’oblio. E si era svegliato in quel luogo da incubo e aveva visto cose che non esistevano sulla Terra, né, per quello che ne sapeva, su quel nuovo pianeta. Ma quella esperienza non era stata un sogno.

CAPITOLO OTTAVO

Finirono di mangiare e riposero i contenitori nei supporti all’interno dei graal. Siccome lì vicino non c’era acqua, avrebbero dovuto attendere fino al mattino seguente per lavare i contenitori. Frigate e Kazz, però, avevano ricavato dei buglioli da alcuni segmenti di bambù giganti. L’americano si offrì di scendere al fiume e riempire d’acqua i recipienti, se qualcuno l’avesse accompagnato. Burton si chiese il motivo di tale gesto. Poi, guardando Alice, lo capì. Frigate doveva essere in cerca di adeguata compagnia femminile. Evidentemente dava per scontato che Alice Hargreaves preferisse Burton. E le altre donne (Tucci, Malini, Capone, Fiorri) avevano fatto la loro scelta: rispettivamente per Galeazzi, Brontich, Rocco, Giunta. Babich aveva lasciato il gruppo, probabilmente per lo stesso motivo per cui Frigate voleva assentarsi.

Monat e Kazz accompagnarono Frigate. Il cielo si era popolato d’improvviso di giganteschi punti luminosi e di grandi e brillanti ammassi di gas. Lo scintillio delle stelle accalcate, alcune delle quali erano così grandi da sembrare frammenti di lune, unendosi alla luminescenza delle nubi di gas riempiva di stupore e meraviglia i risorti, facendo sì che si sentissero penosamente microscopici e sproporzionati.

Burton era sdraiato supino su un mucchio di foglie, succhiando un sigaro. Era eccellente, e nella Londra dei suoi tempi sarebbe costato almeno uno scellino. Ora non si sentiva più così minuscolo e indegno. Le stelle erano cose inanimate, ed egli era vivo. Nessuna stella avrebbe mai potuto conoscere il delizioso sapore di un sigaro costoso. Né l’estatica gioia di avere accanto una donna calda e ben provvista di curve.

Dall’altra parte del fuoco, confusi del tutto o in parte fra le erbe e le ombre, c’erano i triestini. Il liquore li aveva disinibiti, benché il loro senso di liberazione potesse provenire un poco dalla felicità di essere di nuovo vivi e giovani. Sghignazzavano, ridevano, si rotolavano di qua e di là sull’erba, si baciavano rumorosamente. E poi, una coppia dopo l’altra, si ritirarono nelle tenebre. O almeno smisero di far chiasso.

La bambina era crollata dal sonno accanto ad Alice. Il fuoco gettava dei riflessi palpitanti sul bel volto aristocratico della donna, sulla sua testa calva, sul magnifico corpo, sulle lunghe gambe. Burton si rese conto di colpo che ogni parte di sé era tornata in vita. Decisamente non era più il vecchio che, durante gli ultimi sedici anni della sua vita, aveva pagato così a caro prezzo le numerose febbri e le malattie che lo avevano prosciugato nei tropici. Ora era di nuovo giovane, sano, e posseduto dal vecchio demone vociante.

Tuttavia aveva promesso ad Alice di difenderla. Non poteva compiere alcun movimento, né pronunciare alcuna parola, che ella potesse interpretare come tentativo di seduzione.

Bene, Alice non era l’unica donna al mondo. In realtà egli aveva un intero mondo di donne, se non a sua disposizione, almeno in attesa di essere invitate. Cioè, così era se tutti quelli che erano morti sulla Terra si trovavano ora su quel pianeta. Alice sarebbe stata una sola di fronte a molti miliardi (forse trentasei, se il conto di Frigate era esatto). Ma naturalmente non c’era alcuna prova sicura che le cose stessero proprio così.

Il dannato guaio era che Alice, in ogni caso, avrebbe potuto essere benissimo in quel momento l’unica donna al mondo. Egli non poteva alzarsi e allontanarsi nelle tenebre in cerca di un’altra, perché questo avrebbe lasciato lei e la bambina prive di protezione. Alice non si sarebbe di certo sentita al sicuro con Monat e Kazz, ed egli non la poteva biasimare. Quei due erano davvero terribilmente brutti. Né la poteva affidare a Frigate (sempre che fosse tornato quella notte, del che dubitava) perché costui era un’incognita.

Burton di colpo scoppiò a ridere rumorosamente per la propria situazione. Aveva deciso che per quella notte sarebbe rimasto a bocca asciutta. Il pensiero lo fece ridere sempre di più, ed egli non smise se non quando Alice gli chiese se stava bene.

— Molto meglio di quanto lei possa immaginare — rispose Burton volgendole la schiena. Pescò con la mano nel graal e ne estrasse l’ultimo prodotto contenuto. Era una tavoletta di una sostanza simile al lattice. Frigate, prima d’andare, aveva commentato che i loro sconosciuti benefattori dovevano essere americani. Altrimenti non avrebbero pensato di fornire della gomma da masticare.

Burton schiacciò il sigaro in terra e si schiaffò in bocca la tavoletta. — Ha un sapore strano ma piuttosto delizioso — disse. — Ha provato la sua?

— Ne sono tentata, ma m’immagino che somiglierei a una mucca che rumini il suo bolo.

— Dimentichi di essere una signora — replicò Burton. — Pensa forse che chi ha il potere di farla risorgere abbia gusti volgari?

Alice fece un leggero sorriso. — Non saprei — disse; e mise in bocca la tavoletta. Per un po’ i due masticarono pigramente, guardandosi l’un l’altro attraverso il fuoco. Alice non riusciva a fissare Burton negli occhi per più di pochi secondi ogni volta.

— Frigate ha fatto capire che la conosceva. O meglio, che ha sentito parlare di lei. Perdoni la mia sconveniente curiosità: chi è lei?

— Non ci sono segreti tra i morti — rispose Alice con disinvoltura. — E neppure tra gli ex-morti.

Era nata Alice Pleasance Liddel, il 25 aprile 1852 (Burton allora aveva trent’anni). Era la diretta discendente di Re Edoardo III e di suo figlio Giovanni di Gaunt. Suo padre era preside del Christ Church College di Oxford, e coautore di un famoso dizionario greco-inglese (il «Liddel Scott», ricordò Burton). Alice aveva avuto un’infanzia eccellente, e aveva conosciuto molti uomini famosi del suo tempo: Gladstone, Matthew Arnold, il Principe di Galles, il quale era stato affidato alle cure del padre di Alice durante la propria permanenza a Oxford. Suo marito era stato Reginald Gervis Hargreaves, ed ella l’aveva amato moltissimo. Era un «gentiluomo di campagna», e amava cacciare, pescare, giocare a cricket, piantare alberi, e leggere romanzi francesi. Alice aveva avuto tre figli, tutti capitani, due dei quali morti nella Prima guerra mondiale, del 1914-1918. (Era la seconda volta, quel giorno, che Burton sentiva nominare la Prima guerra mondiale.)

Alice parlava e parlava, come se il liquore le avesse sciolto la lingua. O come se avesse voluto piazzare una barriera di conversazione tra sé e Burton.

Parlò di Dinah, la gatta soriana cui era stata affezionata da piccola; e dei grandi alberi dell’orto botanico di suo marito; e raccontò che suo padre, mentre lavorava al dizionario, starnutiva sempre a mezzanotte in punto, e nessuno sapeva perché… All’età di ottant’anni aveva ricevuto una laurea ad honorem in lettere, dall’università americana di Columbia, per la parte essenziale che aveva avuto nella genesi del famoso libro del signor Dogson. (Alice omise di citarne il titolo, e Burton, pur essendo stato un lettore famelico, non ricordò alcuna opera di un certo signor Dogson.)