Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si spaventarono subito di quegli enormi topi, e – per non morir di fame – si ficcavano loro nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri, brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare.
Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui avesse soltanto l’obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della biblioteca, volli, prima d’andarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno scoppio di risa, e mi domandò:
– Che è stato?
– Due topi, signor Romitelli!
– Ah, topi… – fece lui tranquillamente.
Erano di casa; c’era avvezzo; e riprese, come se nulla fosse stato, la lettura del suo libraccio.
In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio Soderini si legge che i frutti maturano «parte per caldezza e parte per freddezza; perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è la semplice cagione della maturezza». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un’altra cagione della maturezza. Per portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li maturano loro a furia d’ammaccature.
Ora così venne a maturazione l’anima mia, ancora acerba.
In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima. Morto il Romitelli, mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma poteva bastarmi?
La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali, provai un brivido d’orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l’obbligo di leggere, io bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a terra. Ma poi lo ripresi; e – sissignori – mi misi a leggere anch’io, e anch’io con un occhio solo, perché quell’altro non voleva saperne.
Lessi così di tutto un po’, disordinatamente; ma libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano. Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso, a un lembo di spiaggia solitaria.
La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e m’impedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia densa e greve, mormorando:
– Così, sempre, fino alla morte, senz’alcun mutamento, mai…
L’immobilità della condizione di quella mia esistenza mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi, come per scuotermela d’addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna:
– Ma perché? ma perché?
E mi bagnavo i piedi.
Il mare allungava forse un po’ più qualche ondata, per ammonirmi:
«Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché? Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! L’acqua salata infradicia le scarpe; e quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia: va’, va’ piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in‐8°: ne trarrai senza dubbio maggior profitto.»
Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo!
Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera m’afferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso:
– Un medico! Scappa! Romilda muore!
Viene da restare, no? a una siffatta notizia a bruciapelo. E invece, «Correte!». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual parte pigliare; e mentre correvo, non so come, – Un medico! un medico! – andavo dicendo; e la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch’io a spiegare che cosa mi fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide, costernate; scansavo, scansavo tutti: – Un medico! un medico!
E il medico intanto era là, già a casa mia. Quando trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l’altra alla luce.
– Due!
Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l’una accanto all’altra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine così gracili eppur quasi artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere, misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e anch’esse non avevano forza di vagire, come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si sgraffiavano!
Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: – erano mie!
Una mi morì pochi giorni dopo; l’altra volle darmi il tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto l’ardore di un padre che, non avendo più altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s’era fatta tanto bellina, tanto, con quei riccioli d’oro ch’io m’avvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: – Figlia –; e lei di nuovo: – Papà… –; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro.
Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello stesso giorno e quasi alla stess’ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla più rivedere, baciare per l’ultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene, dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un minuto… debbo dirlo? – molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano, umano, umano – io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine attonita, spaventevole, e mi addormentai.