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– Non ne avrai avuto il coraggio, va’ là! – dissi io ridendo.

Mino negò; ma arrossì troppo, negando.

– Ho parlato però con la serva, – s’affrettò a soggiungermi. – E n’ho saputo di belle, sai? M’ha detto che il tuo Malanno lo han lì sempre per casa, e che, così all’aria, le sembra che mediti qualche brutto tiro, d’accordo con la cugina, che è una vecchia strega.

– Che tiro?

– Mah, dice che va lì a piangere la sua sciagura, di non aver figliuoli. La vecchia, dura, arcigna, gli risponde che gli sta bene. Pare che essa, alla morte della prima moglie del Malagna, si fosse messo in capo di fargli sposare la propria figliuola e si fosse adoperata in tutti i modi per riuscirvi; che poi, disillusa, n’abbia detto di tutti i colori all’indirizzo di quel bestione, nemico dei parenti, traditore del proprio sangue, ecc., ecc., e che se la sia presa anche con la figliuola che non aveva saputo attirare a sé lo zio. Ora, infine, che il vecchio si dimostra tanto pentito di non aver fatto lieta la nipote, chi sa qual’altra perfida idea quella strega può aver concepito.

Mi turai gli orecchi con le mani, gridando a Mino:

– Sta’ zitto!

Apparentemente, no; ma in fondo ero pur tanto ingenuo, in quel tempo. Tuttavia – avendo notizia delle scene ch’erano avvenute e avvenivano in casa Malagna – pensai che il sospetto di quella serva potesse in qualche modo esser fondato; e volli tentare, per il bene d’Oliva, se mi fosse riuscito d’appurare qualche cosa. Mi feci dare da Mino il recapito di quella strega. Mino mi si raccomandò per la ragazza.

– Non dubitare, – gli risposi. – La lascio a te, che diamine! E il giorno dopo, con la scusa d’una cambiale, di cui per combinazione quella mattina stessa avevo saputo dalla mamma la scadenza in giornata, andai a scovar Malagna in casa della vedova Pescatore.

Avevo corso apposta, e mi precipitai dentro tutto accaldato e in sudore.

– Malagna, la cambiale!

Se già non avessi saputo ch’egli non aveva la coscienza pulita, me ne sarei accorto senza dubbio quel giorno vedendolo balzare in piedi pallido, scontraffatto, balbettando:

– Che… che cam…, che cambiale?

– La cambiale così e così, che scade oggi… Mi manda la mamma, che n’è tanto impensierita!

Batta Malagna cadde a sedere, esalando in un ah interminabile tutto lo spavento che per un istante lo aveva oppresso.

– Ma fatto!.. tutto fatto!.. Perbacco, che soprassalto… L’ho rinnovata, eh? a tre mesi, pagando i frutti, s’intende. Ti sei davvero fatta codesta corsa per così poco?

E rise, rise, facendo sobbalzare il pancione; m’invitò a sedere; mi presentò alle donne.

– Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote. Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.

– Romilda, se non ti dispiace…

Come se fosse a casa sua.

Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia:

– Ma no! ma no! Da’ qua!

Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt’intorno, che tintinnivano.

Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda, no.

Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore.

Non mi parve, dall’aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse con molto piacere l’annunzio d’una mia seconda visita: mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione: occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano, ondulati, che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle.

La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell’ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un’umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d’affamato. C’era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore.

Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch’erano opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, – aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il ritratto.

– Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio. Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc’anzi pensato: «Somiglierà al padre!». Adesso, di fronte al ritratto di questo, non sapevo più che pensare.

Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi, vedova Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta bello, capace d’essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo più pazzo del marito.

Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore d’ammirazione, ch’egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta e d’aver la mia approvazione.

Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l’aria d’essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza.

– E come? – mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.

– Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare a me: t’ajuterò. Codesta avventura mi piace.

– Eh… ma… – obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi sulle spine nel vedermi così infatuato. – Tu diresti forse… sposarla?

– Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?

– No, perché?

– Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch’ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c’è dubbio, e ti piace, non è vero?) – oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell’altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame: proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un’opera santa, di salvazione?

– Io no… no! – fece Pomino. – Ma… mio padre?

– S’opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella, sai? è figlia d’un artista, d’un valentissimo incisore, morto… sì, morto bene, insomma, a Torino… Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può dunque contentare, senza badare alla dote! Che se poi, con le buone, non riesci a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e s’aggiusta ogni cosa. Pomino, hai il cuore di stoppa?