Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l’animo esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere anche per poco l’equilibrio che forse gli costava tanto studio, l’equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors’anche con una cert’aria di dignità alle spalle della moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre alla bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d’elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare alla moglie;
neppure un briciolo di cuore, che forse l’avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l’aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero Berto?
Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche maniere. Prevedevo da un momento all’altro un prorompimento del suo furore, contenuto ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel vedermi aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo.
Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta, finalmente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie serve alla mamma.
Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte, perché aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s’era subito allogata altrove a servire; ma l’altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora Margherita, la buona vecchierella che già l’aveva sospettato e non osava dirglielo, le aveva profferto d’andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh, ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora l’affetto e la devozione che sentiva per lei.
Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella povera vecchia? Donde l’ira della vedova Pescatore.
Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all’altra vecchietta, come per ripararsi.
Veder mia madre in quell’atteggiamento e perdere il lume degli occhi fu tutt’uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma s’arrestò di fronte a me.
– Fuori! – mi gridò. – Tu e tua madre, via! Fuori di casa mia!
– Senti; – le dissi io allora, con la voce che mi tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. – Senti: vattene via tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene, per il tuo bene! Vattene!
Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona e venne a buttarsi tra le braccia della madre:
– No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi lasciare qua sola!
Ma quella degna madre la respinse, furibonda:
– L’hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io vado sola!
Ma non se ne andò, s’intende.
Due giorni dopo, mandata – suppongo – da Margherita, venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma.
Questa scena merita di essere rappresentata.
La vedova Pescatore stava, quella mattina, a fare il pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia, e seguitò ad abburattare, come se nulla fosse. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno; diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei.
– Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!
Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le sfavillavano.
La vedova Pescatore, zitta.
Finito di abburattare, intrisa la farina e coagulatala in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man mano più forte: «Ma sì! – ma certo! – ma come no? – ma sicuramente!»; poi, come se non bastasse, andò a prendere il matterello e se lo pose lì accanto, su la madia, come per dire: ci ho anche questo.
Non l’avesse mai fatto! Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:
– Eccoti! lascia tutto. Via subito!
E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il grosso batuffolo della pasta, gliel’appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e, a pugni chiusi, là, là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva. Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.
Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida, mentr’io:
– Le gambe! le gambe! – gridavo alla vedova Pescatore per terra. – Non mi mostrate le gambe, per carità!
Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.