— Sta pensando che potrebbe esserci un altro cadavere? Da questa parte, voglio dire — domandò Miles.
— È stato l'unico a non rispondere all'appello mattutino — disse l'ufficiale, — quindi è probabile di no. — Ma non sembrava disposto a scommetterci.
Quando la pozzanghera fu vuota comparve tuttavia un altro oggetto: il parka del soldato, appiattito nel fango. Evidentemente se l'era tolto prima di addentrarsi nello scarico, poggiandolo sulla bassa recinzione del percorso di guerra, e il vento l'aveva gettato al suolo. Il medico lo portò via con sé.
— Pare che queste cose non le facciano nessun effetto — commentò Pattas, mentre il veicolo si allontanava verso l'infermeria.
Il tecnico motorista non era molto più anziano di lui. — Non ti è mai capitato di maneggiare un cadavere? — gli domandò Miles.
— A me no. E a lei?
— Sì.
— Dov'è successo?
Miles esitò. Gli avvenimenti di tre anni prima erano ancora vividi nella sua memoria. I brevi mesi in cui s'era trovato a combattere disperatamente, in luoghi lontani, non erano però cosa di cui potesse parlare liberamente, o neppure accennare. I militari del Servizio Imperiale provavano soltanto disprezzo per i mercenari, vivi o morti. Ma la Campagna Tau Verde gli aveva senza dubbio insegnato la differenza fra l'addestramento e la realtà, fra le manovre belliche e la guerra vera, e nella morte dei compagni c'era qualcosa che restava per sempre appiccicato addosso. — Sono cose passate — disse, con un gesto vago.
Pattas scrollò le spalle e tornò al loro veicolo. — Be' — grugnì, voltandosi a mezzo, — almeno lei non ha paura di sporcarsi le mani, signore.
Miles inarcò un sopracciglio, divertito. Già. Non è di questo che ho paura.
Scrisse «Tubatura di drenaggio CA/69-B: stasata» sul display del rapporto giornaliero; poi riconsegnò la motopulce, l'equipaggiamento e i silenziosi Olney e Pattas al sergente Neuve della manutenzione e tornò agli alloggi ufficiali. Non aveva mai desiderato tanto una doccia in vita sua.
Stava percorrendo il corridoio verso la sua stanza quando una porta si aprì e un altro ufficiale mise fuori la testa. — Ah, alfiere Vorkosigan.
— Sì?
— Hanno chiamato al videotelefono, poco fa. Ho registrato a suo nome, così se vuole rispondere…
— Una telefonata? — Miles si fermò. — Da dove?
— Vorbarr Sultana.
Miles sentì un brivido nella nuca. Qualche problema a casa sua? — Grazie — annuì. Tornò in fretta all'inizio del corridoio, dove c'era la consolle che gli ufficiali di quel piano usavano in comune.
Sedette al terminale e batté il suo nome. Il numero che aveva chiamato gli era sconosciuto. Lo compose, infilò la tessera di credito nella fessura e attese che il satellite gli trovasse una linea libera. Il videotelefono all'altro capo del filo suonò parecchie volte; poi lo schermo prese vita e su di esso comparve il volto attraente di suo cugino Ivan. Il giovanotto sogghignò.
— Ah, Miles. Eccoti qua, finalmente.
— Ivan! Dove diavolo sei? Cos'è successo?
— Sono a casa mia, ragazzo. E non sto parlando della casa di mia madre. Pensavo che ti avrebbe fatto piacere dare uno sguardo al posticino dove mi sono sistemato.
Miles ebbe la vaga, disorientante, sensazione d'essere in linea con un universo parallelo, o un piano astrale alternativo. Vorbarr Sultana, certo. Lui aveva vissuto in quella città, in una precedente reincarnazione. Diversi eoni addietro.
Ivan staccò la telecamera dalla sua consolle e la girò attorno, fornendogli una panoramica un po' instabile di un soggiorno dalle eleganti tonalità pastellose. — Già completamente ammobiliato — disse la sua voce fuori campo. — L'ho avuto da un capitano del Genio Militare che è stato trasferito a Komarr. Un vero affare, credimi. Ho appena portato qui le mie cose. Riesci a vedere il terrazzo?
Miles vedeva il terrazzo, e vedeva la calda luce dorata del tramonto al di là di esso, in un cielo color miele. I tetti di Vorbarr Sultana si stagliavano su quello sfondo come il profilo di una città fatata. Grappoli di fiori scarlatti traboccavano da un lungo vaso sulla balaustra del terrazzo, così rossi da far male agli occhi. Miles si accorse di aver deglutito un pesante groppo di saliva. — Belli, i tuoi fiori — disse, con voce rauca.
— Vero? Li ha portati la mia ragazza.
— La tua ragazza? — Ah, sì, gli esseri umani erano suddivisi in due sessi, ora che ci pensava. Uno aveva un profumo migliore dell'altro. Molto migliore. — Che ragazza?
— Tatya.
— La conosco? — Miles si sforzò di ricordare.
— Naah. È una nuova.
Ivan smise di far ruotare la telecamera e riapparve sullo schermo. I sensi esacerbati di Miles si placarono un poco. — Allora, com'è il tempo da quelle parti? — Ivan lo scrutò con più attenzione. — Mi sembri bagnato, ragazzo. Che stavi facendo di bello?
Lui esitò. — Uh, medicina legale… e idraulica.
— Cosa? — Le sopracciglia di Ivan s'inarcarono.
— Non importa — borbottò Miles. — Senti, è davvero un piacere vedere una faccia nota e tutto il resto, sul serio. — Ed era un piacere, in effetti, strano, quasi doloroso. — Però adesso sono in piena giornata lavorativa, qui.
— Io sono smontato un paio d'ore fa — disse Ivan. — Stavo giusto per uscire. Porto Tatya a cena fuori, stasera. Mi hai preso appena in tempo. Allora dimmi, in due parole: com'è la vita lì, con la fanteria?
— Oh, grande. La Base Lazkowski è un posto dove si fa sul serio, sai? Non è un… un posteggio per i Lord Vor in eccesso, come il Quartier Generale Imperiale.
— Be', io faccio il mio lavoro! — replicò Ivan, piccato. Poi tornò a sorridere. — È un incarico che ti piacerebbe, sai? Processiamo informazioni. C'è da non crederci, quanto materiale ci trasmette la sezione operativa di questi tempi. È come essere sulla cima del mondo. Sarebbe una cosa adatta a te.
— Interessante. Anch'io stavo pensando che la Base Lazkowski sarebbe proprio adatta a te. Che abbiano scambiato i fogli con la nostra destinazione?
Ivan si grattò un lato del naso e fece una smorfia. — Non saprei dire. — La sua allegria lasciò il posto a uno sguardo un po' preoccupato. — Senti, abbi cura di te, lì in quel posto. Non mi hai l'aria d'essere molto in forma.
— Ho avuto una mattinata impegnativa. Appena riattacchi, filo di corsa sotto la doccia.
— Oh, bene. Be', cerca di riguardarti.
— E tu goditi la cena.
— Contaci pure, ragazzo. Ci vediamo.
Voci da un altro universo. Eppure Vorbarr Sultana era a due sole ore di volo suborbitale. In teoria. Ma per Miles fu in qualche modo un conforto poter ricordare che il nebbioso orizzonte dell'isola Kyril non rappresentava tutto il pianeta.
Quel giorno trovò difficile concentrarsi sulla meteorologia. Per fortuna il suo superiore non ci faceva caso. Da dopo l'incidente con la motopulce Ahn manteneva un nervoso silenzio con lui, salvo quando veniva interpellato su questioni di lavoro. Al termine dell'orario d'ufficio Miles uscì e andò subito in infermeria.
Il medico-chirurgo stava facendo lo straordinario, o comunque indugiava seduto alla sua scrivania, quando lui mise dentro la testa. — Buonasera, signore.
L'ufficiale alzò lo sguardo. — Oh, è lei, alfiere. Che c'è?
Miles lo prese per un invito, malgrado il tono di voce poco incoraggiante, ed entrò. — Mi stavo chiedendo cos'ha scoperto sul poveraccio che abbiamo tirato fuori dallo scarico stamattina.
Il medico si strinse nelle spalle. — Non che ci fosse molto da scoprire. Ho controllato la sua identità e confermato una diagnosi di annegamento. L'esame degli ematomi, l'ipotermia, le tracce di stress e tutte le altre prove fisiche e metaboliche indicano che al momento della morte si trovava nella conduttura da meno di mezz'ora. Mi sembra che si possa parlare di «morte accidentale».
— Sì, ma perché è morto?
— Perché? — Il medico allargò le braccia. — Se aveva deciso di fare quest'idiozia il motivo lo sapeva soltanto lui, no?