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Miles sbatté le palpebre. — Lavori forzati? Schiavi?

— Una specie. La condanna per vagabondaggio adesso è la deportazione sulla Stazione Aslund. Qui ci sono molti tecnici disoccupati, e alla maggior parte di loro non importa. Niente paga, ma avranno cibo e alloggio, e saranno fuori dalla portata della polizia jacksoniana, perciò non si troveranno peggio di qui. Alcuni sono convinti che alla fine avranno un ingaggio su una nave oppure un buon lavoro su Aslund. Essere senza soldi in tasca, laggiù, non è considerato un crimine.

Miles cercò d'ignorare il malessere. — Ti stanno portando via?

La tensione restò negli occhi di Gregor, senza emergere sulla calma forzata del suo volto. — Proprio adesso, credo.

— Dio! Non posso permettere che ti…

— Ma come hai saputo che ero qui? — lo interruppe Gregor. Guardò gli uomini e le donne in tuta azzurro-smorto che si stavano alzando dalle brande. — Dio, bisogna fare qualcosa.

Qualcosa cosa? Miles si guardò intorno, freneticamente. L'individuo sulla branda accanto li stava di nuovo osservando, con espressione annoiata. Non era molto alto…

— Tu! — Miles si alzò e barcollò avanti, appoggiandosi alla parete umida. — Ascoltami, vuoi toglierti da questo guaio?

L'altro parve scarsamente interessato. — Forse. Ma come?

— Scambiamoci i vestiti. Scambiamoci il nome. Tu prendi il mio posto, e io il tuo.

L'uomo lo fissò insospettito. — Dov'è il trucco?

— Niente trucchi. Io ho un sacco di soldi. Sarei già uscito di qui, se avessi potuto fare una telefonata. — Miles dovette appoggiare un ginocchio sul pavimento. — Ma ho fatto resistenza all'arresto, e mi hanno pestato.

— Perché, credevi che ti avrebbero portato qui dentro in carrozza? Il più fortunato ce l'hanno fatto arrivare a calci. Che te ne fai di cambiare identità con un altro?

— Per favore! Io devo andare con… con il mio amico. Ti darò quello che vuoi. — Gli uomini e le donne parlottavano a bassa voce, riunendosi lentamente davanti all'uscita in fondo allo stanzone. Gregor girò intorno al letto dell'uomo, che si tirò a sedere volgendogli le spalle.

— Naah — borbottò. — Chi mi dice che non ti hanno messo dentro per qualcosa di grosso? No, non voglio averci a che fare, amico. — Mise i piedi al suolo e si preparò ad alzarsi per andare in fila con gli altri.

In ginocchio di fronte a lui Miles alzò le mani, supplichevole. — Per favore…

Gregor gli balzò addosso e lo afferrò per il collo. Poi lo trascinò giù dal letto con un violento strattone all'indietro e lo rovesciò al suolo, fuori vista. Grazie al cielo l'aristocrazia barrayarana insisteva molto sull'addestramento militare dei suoi giovani. Miles si alzò per celare il più possibile la scena a chi stava all'altra estremità del magazzino. Da dietro il letto provennero alcuni tonfi soffocati. Pochi secondi dopo una blusa grigio-azzurra da detenuto gli arrivò fra i piedi calzati di sandali. Lui si chinò a raccoglierla e la indossò sulla sua camicia di seta verde — per fortuna non gli stava troppo larga — poi s'infilò nei pantaloni che la seguirono, arrotolando l'orlo all'interno per accorciarli. Ci furono altri lievi rumori quando il corpo incosciente dell'uomo fu spinto sotto la branda, e infine Gregor si tirò in piedi, ansimante e pallido in faccia.

— Queste cordelle che adoperano invece della cintura… non ci riesco — disse Miles, annaspando con mani tremanti.

Gregor lo aiutò ad annodarle e gli sistemò meglio l'orlo dei pantaloni. — Hai bisogno della sua carta d'identità, altrimenti non potrai avere da mangiare né registrare il tuo lavoro-credito — sibilò con un angolo della bocca, e si appoggiò artisticamente alla spalliera del letto, fingendo pigra indifferenza.

Miles controllò le tasche e trovò la carta standard per i computer. — Ce l'ho — disse, e mentre si avviava a fianco di Gregor strinse i denti con un mugolio. — Sto per cadere in terra, lo sento.

Lui lo afferrò per un gomito. — Non ora, santo cielo. Attireresti l'attenzione di tutti.

Attraversarono il locale e si accodarono alla fila dei candidati all'espatrio, che brontolavano e si lamentavano. La porta si aprì, un poliziotto grugnì ai presenti di passare oltre e li controllò uno per uno, passando uno scanner sopra le loro carte d'identità.

— … ventitré, ventiquattro, venticinque — comunicò ai colleghi che stavano fuori. — Bene così. Questi portateli via.

A scortarli c'era adesso una pattuglia di guardie che non avevano l'uniforme della Stazione Confederata, ma quella di qualche altra organizzazione jacksoniana, nera e dorata. Miles cercò di tenere nascosta la faccia mentre venivano condotti fuori dalla prigione. La mano di Gregor era la sola cosa che lo tenesse in piedi. Passarono per una galleria, svoltarono in un'altra, furono introdotti in un largo montacarichi — Miles per poco non si afflosciò durante la discesa — e quindi in uno stretto corridoio di servizio. E se questa dannata carta d'identità avesse un allarme sonico? pensò ad un tratto. Nel successivo montacarichi in cui entrarono la infilò in una fessura, e il rettangolo di plastica sparì in silenzio. Un molo d'imbarco, un portello stagno, la breve assenza di peso in un tubolare di collegamento e furono a bordo di una nave. Sergente Keller, dove sei finito?

Era un semplice vascello da trasporto interplanetario, non una nave da balzo, ma non per questo molto spazioso. Gli uomini furono separati dalle donne e indirizzati verso l'estremità opposta di un corridoio, su cui si aprivano cabine a quattro cuccette. I futuri lavoratori forzati scelsero ciascuno il suo alloggio, senza che le guardie si preoccupassero d'interferire.

Miles fece un rapido calcolo. — Possiamo avere una cabina tutta per noi, se ci proviamo — sussurrò, dando di gomito a Gregor. S'infilarono nella prima che trovarono libera e subito chiusero la porta. Uno dei prigionieri fece per seguirli e fu accolto con un ringhioso: — Stai fuori dai piedi! — Nessun altro cercò di aprire la loro porta.

La cabina era incrostata di sudiciume e priva di amenità come le lenzuola per le cuccette, ma il lavandino funzionava. Mentre sì dissetava con un rivolo d'acqua rugginosa Miles sentì i tonfi dei portelli che si chiudevano, e la nave si staccò dal molo. Per il momento erano al sicuro. Ma per quanto?

— Credi che quell'uomo sia già rinvenuto? — domandò a Gregor, che s'era seduto su una cuccetta.

— Non lo so. Non avevo mai colpito nessuno — mormorò cupamente lui, a disagio. — Ho sentito… qualcosa di strano sotto le mie mani. Temo di avergli spezzato il collo.

— Stava ancora respirando — disse Miles. Andò alla cuccetta di fronte e controllò l'imbottitura. Nessun segno di pulci o di pidocchi. Si mise a sedere. Il tremito gli era passato, lasciandogli solo alcuni dolori muscolari, ma aveva le ginocchia deboli. — Quando si sveglierà… o appena lo trovano, che si svegli o no, ci metteranno poco a capire dove sono andato. Avrei dovuto aspettare un'occasione migliore e poi seguirti, per riportarti indietro. Presumendo che fossi riuscito a togliermi dai guai, voglio dire. Questa è stata un'idea stupida. Perché non mi hai fermato?

Gregor si accigliò. — Credevo che tu sapessi quello che stavi facendo. Non ti ha mandato Illyan?

— Non fin dove ci siamo incontrati, che io sappia.

— So che sei nel dipartimento di Illyan, ora. Pensavo che ti avesse incaricato di cercarmi. Anche se mi è parso un po' strano il modo in cui ti ho visto arrivare in mio aiuto.

— Non sapevo niente di te. — Miles scosse il capo, e subito rimpianse quel movimento. — Forse è meglio che tu cominci dal principio.

— Ero in visita su Komarr e ci sono rimasto una settimana. Sotto le cupole. Chiacchiere ad alto livello sulle rotte e sulle stazioni di balzo… stiamo ancora cercando di convincere gli escobarani a lasciar passare le nostre navi militari. L'idea era di permettere che le loro squadre d'ispezione mettano i sigilli alle armi delle nostre navi in transito. I nostri alti ufficiali pensavano che questo fosse troppo, i loro che fosse poco. Io ho firmato un paio di accordi… qualunque cosa fosse quello che il Consiglio dei Ministri mi ha messo davanti…