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Miles agitò una mano, scartando quell'argomentazione. — Io non ho detto che rifiuterei il tuo ordine come alfiere Vorkosigan… ti ho risposto come Lord Vorkosigan. E come amico.

— Ah.

— Senti, tu non hai bisogno che venga io a toglierti dai guai. Illyan, forse, ma non io. Però farlo io mi fa sentire meglio.

— È sempre bello sentirsi utili — fu d'accordo lui. Si scambiarono un sorrisetto, e quello di Gregor perse la sua piega acre. — Anche non essere soli… anche questo è bello.

Lui annuì. — Parole sante.

Nei due giorni successivi Miles trascorse più tempo di quel che gli sarebbe piaciuto nell'esiguo spazio del sottoponte, ma la loro cabina fu perquisita soltanto un'altra volta prima che le ricerche finissero. Un paio di prigionieri entrarono a chiacchierare con Gregor, e lui (su suggerimento di Miles) restituì la visita. Il giovane Imperatore sembrava effettivamente capace di cavarsela senza problemi; non si lamentò della cucina di bordo, divise con lui ogni pasto, e nel fare le parti fu sempre irremovibile nel rifiutare la porzione più grossa.

Ma quando la nave attraccò alla Stazione Aslund, una guardia venne a prelevare Gregor, lo mise in fila con gli altri e tutti furono portati via. Miles aspettò nervosamente che l'equipaggio tornasse ai suoi compiti di routine, ma il timore che potessero ripartire con lui a bordo lo faceva fremere. Quando gli parve di non sentire più molta attività uscì dal suo nascondiglio, rimise a posto le viti e si concesse un'altra mezz'ora di attesa.

Il corridoio, allorché si decise a metter fuori la testa, era buio e deserto. Al portello d'uscita non vide nessuna sentinella. Lui indossava la blusa e i pantaloni azzurro-sporco dei lavoratori ingaggiati a forza, e tutto ciò che poteva augurarsi era d'essere scambiato per uno di loro, almeno da lontano. In fondo al corridoio trovò una piccola scatola di attrezzi da lavoro, e decise che tenerla in mano gli avrebbe dato un aspetto più naturale.

A passi fermi percorse il tubolare, superando le lievi interferenze fra le griglie gravitazionali della nave e della stazione; ma quasi gli venne un colpo quando scoprì che un uomo in uniforme nera e dorata stazionava sul molo a pochi metri dall'uscita. Aveva lo storditore nella fondina, e in mano un bicchiere di plastica in cui fumava qualcosa di caldo. Il suo sguardo esaminò Miles con una vaga e indifferente curiosità che lo incoraggiò a dirigersi verso di lui senza rallentare il passo.

— Se c'è una cosa che odio più delle filettature spanate — disse Miles, — sono quelli che si liberano del problema con una saldatura tutto intorno. Non è così che si fa, dico io.

L'uomo gli elargì un breve sogghigno di comprensione e si limitò ad annuire. Evidentemente il suo incarico era d'impedire che strana gente entrasse nella nave, non che ne uscisse.

In quella zona dei moli della stazione c'era solo una dozzina di tecnici in tuta che lavoravano con calma presso un'uscita. Miles fece un lungo respiro e li oltrepassò con andatura tranquilla e senza guardarsi intorno, come se sapesse bene dove stava andando e non avesse troppa fretta di arrivarci. Nient'altro che un operaio un po' pigro. Nessuno gli rivolse la parola.

Rassicurato, si aggirò a caso nella sezione successiva. Una larga rampa portava in un bacino di carenaggio che aveva l'aria d'essere di nuova costruzione, dove squadre di tecnici in tute di diverso colore stavano lavorando su uno scafo; una scialuppa militare da sbarco, a giudicare dai sistemi d'arma mezzo smontati. Proprio il genere di cosa che avrebbe attirato l'attenzione di Ungari. Miles non presumeva d'essere così fortunato da… no, infatti. Nessun segno di Ungari, travestito o meno, fra quella gente. C'erano numerosi uomini e donne con l'uniforme delle forze spaziali di Aslund, ma sembravano anch'essi tecnici addetti alle attrezzature e non guardie sospettose. Miles oltrepassò un laboratorio per le riparazioni elettroniche e girò in un altro corridoio. Lì dentro tutto sembrava di recente costruzione.

Ne scoprì il motivo quando trovò la prima finestra panoramica da cui si vedeva l'esterno, un largo rettangolo di plastica trasparente, a triplo strato. Si fermò a guardare il vuoto dello spazio stellato al di là di essa, e dalla bocca gli uscirono alcune brevi imprecazioni scelte con cura. Lo spazio non era affatto vuoto: a qualche chilometro da lì, rotonda e scintillante immagine di luci, c'era la stazione commerciale di balzo. Poco da dubitare che fosse quella, perché un paio di mercantili e piccole navi di linea, in arrivo o in partenza, si muovevano nelle sue vicinanze. Dunque la stazione militare era stata progettata per restare separata da quella civile, oppure non l'avevano ancora collegata. Non c'era da stupirsi che gli operai in tuta azzurro-sporco potessero andare dove volevano. Frustrato, Miles guardò lo spazio che lo separava dalla stazione civile. Be', per intanto avrebbe cercato Ungari su quella militare, e all'altra avrebbe pensato poi. Sicuramente c'era un servizio di traghetti. Scosse il capo e riprese il cammino…

— Ehi, tu! Il piccoletto con quella borsa!

Miles s'irrigidì, sopprimendo l'impulso di mettersi a correre — la sua tattica non era valida dappertutto, evidentemente — e si volse, assumendo un'educata espressione interrogativa. L'uomo che stava venendo dalla sua parte era grosso, ma disarmato, e indossava una tuta bianca da supervisore. Sembrava che avesse fretta. — Sì, signore? — domandò lui.

— Cercavo proprio uno come te. — L'uomo gli abbatté una mano guantata su una spalla. — Hai da fare? Vieni con me.

Miles lo seguì, non avendo altra scelta, e fece del suo meglio per mostrare un'espressione calma, magari un tantino seccata.

— Qual è la tua specializzazione? — chiese l'uomo.

— Manutenzione. Idraulica — disse lui, visto che la sua cassetta di arnesi era tale.

— Proprio quello che ci vuole!

Stupito Miles gli tenne dietro fino all'incrocio con due corridoi ancora in via di costruzione. Alle pareti erano appoggiate le porte, smontate, e casse piene di rivestimenti e di infissi.

Il supervisore gli indicò una stretta intercapedine verticale fra due pareti divisorie. — Vedi questo tubo?

Ce n'erano diversi: grigi per gli scarichi, verdi per l'aria compressa e l'acqua potabile, neri quelli dei collegamenti elettrici per la griglia gravitazionale e le attrezzature. Tutti sparivano nell'oscurità. — Sì, signore.

— C'è una perdita d'aria da qualche parte, dietro questo corridoio. Cerca di infilarti qui dentro e trovala, o dovremo sbattere giù tutti i dannati pannelli che abbiamo appena finito di montare.

Miles depose la cassetta e la aprì. — Ha una torcia?

L'uomo si frugò in tasca e gli consegnò una micropila.

— Bene — sospirò Miles. — Avete tolto la corrente, qui dentro?

— Non preoccuparti. Prima dobbiamo provare la pressurizzazione.

Almeno non avrebbe rischiato di restare fulminato. Riuscì a sorridere con un po' più di buona volontà. Forse la scalogna aveva smesso di prenderlo a calci.

Si insinuò di traverso nell'intercapedine senza difficoltà, grazie alla superficie liscia dei pannelli e dei tubi, fermandosi ogni mezzo passo per ascoltare e tastare. Fu sette metri più avanti che trovò la perdita, o meglio la sentì: un gelido soffio d'aria sotto le dita, facile da localizzare. Prese nota della posizione, cercò di girarsi in quello spazio ristretto, e la sua spalla destra fece staccare a mezzo un pannello quadrato, che si piegò all'esterno con uno scricchiolio.

Perplesso mise fuori la testa dal varco e guardò nel corridoio. Poi prese il pannello fra le mani e lo staccò del tutto. Soltanto allora si accorse che poco più in là c'erano altri due tecnici occupati con una saldatrice. La sua comparsa non li aveva rallegrati.

— Ehi, che diavolo pensi di fare? — sbottò uno dei due, in tono oltraggiato.

— Ispezione, controllo di qualità — disse Miles allegramente. — E qui sembra proprio che abbiate un problema, ragazzi.

Per un attimo considerò l'idea di issarsi fuori da quel foro e tornare dall'esterno al punto di partenza; poi decise che era meno faticoso strisciare all'indietro. Quando uscì, il supervisore era ancora lì dove lo aveva lasciato.