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— Scusi. Per favore, dov'è l'ufficio meteorologico? — disse Miles all'interfono della porta.

— Sopra. — Il luogotenente alzò un pollice verso il soffitto, senza distogliere lo sguardo dallo schermo, e continuò a imprecare. Miles si allontanò in punta di piedi per non disturbarlo.

Salì le scale e al primo piano trovò infine una porta chiusa, senza interfono, su cui un'etichetta scolorita gli confermò che il posto era quello. Depose la sacca, si tolse il parka e lo ripiegò su di essa. Poi controllò la sua uniforme. Quattordici ore di viaggio avevano rovinato l'impeccabile piega della spessa stoffa verde, ma era riuscito a salvarla dalle macchie di cibo, fango e olio lubrificante, e le sue scarpe erano rimaste alla larga da ogni pozzanghera. Si levò il berretto e lo impugnò nel modo prescritto, esattamente all'altezza della cintura. Aveva attraversato metà del pianeta, e atteso metà della vita, per quel momento. Alle sue spalle c'erano tre anni di studio e di addestramento militare che l'avevano preparato ad essere un ufficiale al servizio di Sua Maestà. E tuttavia negli anni dell'Accademia c'era sempre stata una vaga atmosfera di finzione, un sapore di stiamo-soltanto-facendo-pratica; adesso, finalmente, era faccia a faccia con la realtà del Servizio, assegnato a un vero incarico. E la prima impressione poteva essere determinante, soprattutto nel suo caso. Inalò un lungo respiro e bussò, con mano ferma.

Al di là del battente una voce soffocata borbottò qualcosa che Miles non capì. Un invito? Aprì la porta e oltrepassò la soglia.

Con la coda dell'occhio notò la presenza di numerosi schermi e periferiche di computer che occupavano la metà inferiore della parete destra, ma il calore che gli investì la faccia lo bloccò come se avesse urtato in un sipario invisibile: l'aria della stanza aveva almeno la temperatura del sangue. E l'unica illuminazione era quella che proveniva dagli schermi. Scorgendo un movimento alla sua destra, Miles si volse ed eseguì un saluto impeccabile. — Alfiere Miles Vorkosigan, signore, a rapporto come ordinato — annunciò. Strinse le palpebre, scrutò meglio nella semioscurità e non vide nessuno.

Il movimento era venuto dal basso. Seduto per terra, le spalle poggiate al supporto di una consolle, c'era uomo sulla quarantina dalla barba non rasata, vestito solo con la biancheria intima. L'uomo considerò la presenza di Miles con un sorriso e sollevò verso di lui una bottiglia piena a metà di liquido ambrato. — Salu… ugh, ragazzo. Ti voglio bene — farfugliò, e cadde lentamente di lato.

Miles restò a guardarlo in silenzio per alcuni lunghi pensosi secondi.

L'uomo cominciò a russare.

Dopo aver abbassato la temperatura, essersi tolto la giacca dell'uniforme e steso una coperta sul luogotenente Ahn (perché era lui), Miles si concesse una mezz'ora di pausa per esaminare quello che sarebbe stato il suo regno. Una cosa era chiara: per sapere che razza di operazioni si svolgevano in quell'ufficio avrebbe dovuto chiederlo. A parte le immagini inviate in diretta da un satellite, c'erano apparecchiature che all'apparenza ricevevano e registravano dati da una dozzina di mini-stazioni per l'analisi del clima sparse intorno all'isola. Se esistevano o erano mai esistiti manuali per le procedure obbligate, lì non c'erano, neppure nella memoria dei computer. Dopo aver doverosamente ponderato se fosse onorevole nei confronti di un uomo che russava disteso sul pavimento, Miles decise che l'unica era aprire i cassetti della scrivania di Ahn.

Scoprire alcuni fatti precisi lo aiutò a vedere in una prospettiva più chiara lo spettacolo che aveva davanti. Il luogotenente Ahn, così sembrava, dopo vent'anni di servizio era ormai giunto a poche settimane dall'età minima per la pensione. Dalla sua ultima promozione era trascorso molto, molto tempo. E ancor di più dal suo ultimo trasferimento: era il solo addetto all'ufficio meteorologico dell'isola Kyril, e svolgeva quell'incarico da quindici anni.

Questo povero diavolo è stato sbattuto su questa specie di iceberg quando io avevo sei anni, calcolò Miles, e si sentì rabbrividire. Difficile dire, considerati i vari aspetti della faccenda, se i problemi alcolici di Ahn ne erano stati la causa oppure andavano elencati fra gli effetti. Comunque, se il giorno dopo fosse stato abbastanza sobrio da spiegargli come tirare avanti, il resto erano fatti suoi. Se invece non avesse mostrato questa propensione, Miles poteva pensare a una dozzina di metodi, compreso anche qualcuno non troppo piacevole, per tirargli fuori ciò che voleva sapere, ubriaco o no. L'essenziale era che Ahn gli desse almeno un orientamento tecnico; poi, per quanto importava a lui, poteva restare in coma finché non l'avessero fatto rotolare su un carrello e imbarcato su un aereo.

Deciso così il fato di Ahn, Miles si rimise la giacca, sistemò il suo bagaglio dietro la scrivania e uscì a dare un'occhiata al posto. Da qualche parte, nella gerarchia di comando, doveva esserci qualche individuo abbastanza sobrio e sano di mente che stava facendo il suo lavoro, altrimenti la base non avrebbe potuto funzionare neppure nei momenti di minore attività. Oppure erano i caporali e i manovratori di carrelli a portare avanti le cose? Miles cominciò a chiedersi se per sapere dov'era il suo alloggio avrebbe dovuto aggirarsi per i magazzini in cerca di qualche volonteroso rimasto sul posto di lavoro.

Era nell'atrio in fondo alle scale quando una figura umana apparve sulla porta d'ingresso, stagliandosi scura contro la luce esterna. Saltellando avanti con meccanica precisione la figura si rivelò per quella di un uomo alto e robusto in pantaloncini corti, maglietta a mezze maniche e scarpe da ginnastica. La sua faccia era quella dura e decisa di chi è orgogliosamente reduce da una corsa di una dozzina di chilometri, magari interrotta da un paio di pause ristoratrici da cinquanta flessioni l'una. Capelli grigio acciaio, occhi grigio acciaio: l'aspetto era quello di un sergente particolarmente abile nel rendersi odioso anche alle reclute più zelanti. Si arrestò di botto e abbassò lo sguardo su Miles, esprimendo la sua sorpresa con l'espressione accigliata di chi detesta qualsiasi sorpresa.

Miles allargò saldamente i piedi al suolo, alzò la testa e gli restituì uno sguardo altrettanto truce. L'individuo sembrava del tutto incurante dei gradi che gli vedeva sul colletto. Esasperato lui sbottò: — Le persone responsabili sono andate tutte quante in vacanza, oppure è rimasto qualcuno a dirigere questo maledetto posto?

Gli occhi dell'uomo mandarono scintille, come se l'acciaio avesse incontrato una pietra focaia, e quello sguardo fece accendere una luce d'allarme nel cervello di Miles, benché un infelice momento troppo tardi. Ehi, guarda un po' questo tipo! riecheggiò come un isterico riflesso dentro di lui il commento che l'aveva accolto al suo sbarco dall'aereo. Sissignore, sono la vostra nuova mascotte! E con ciò? gridò una voce stridula dentro di lui. Miles soppresse la tentazione di lasciarsi uscire quelle parole di bocca. Sul volto di granito che si vedeva di fronte non c'era la minima traccia di una pur vaga propensione all'umorismo.

Con una smorfia acre che gli fece dilatare le narici, il comandante della Base gratificò Miles di uno sguardo sprezzante e ringhiò: — Sono io che lo dirigo, alfiere.

Densi banchi di nebbia provenienti dal mare, lontano e mormorante, stavano invadendo l'isola quando Miles poté finalmente avviarsi verso il suo nuovo alloggio. Gli edifici riservati agli ufficiali erano immersi in un'oscurità grigiastra così umida e fredda che sembrava solidificare l'aria. Miles decise che era un presagio.

Oh, Dio. Quello sarebbe stato un lungo, lungo inverno.

CAPITOLO SECONDO