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— Rallentare a velocità di ingresso — ordinò il comandante, e accennò al secondo di spegnere la radio. — Ehi, tu, Rotha — disse a Miles. — Vieni qui.

Così sono di nuovo Rotha. Lui esibì un sorrisetto docile e cercando di mascherare il suo famelico interesse aggirò la consolle, fino al punto da cui poteva vedere il display del teleradar. La Ariel? Sì, quella in avvicinamento su una rotta quasi parallela era la sagoma snella dell'incrociatore di costruzione illyrica… ancora al comando di Bel Thorne? Come posso farmi trasferire su quella nave?

— Ehi, non vorrete buttarmi fuori! — protestò, ansiosamente. — Gli Oserani ce l'hanno ancora con me, per via di un vecchio malinteso. Io non sapevo che quelle pistole a plasma fossero difettose.

— Quali pistole a plasma? — domandò il comandante.

— Io commercio in armi, e sono conosciuto in tutta la distorsione. Niente… ho venduto a Oser cinquanta casse di pistole nuove di fabbrica allo stesso prezzo che mi erano costate. Ma poi è venuto fuori che quando andavano in sovraccarico il calcio poteva fondere… in mano a chi lo impugnava. Le avrei ritirate per modificarle a mìe spese, giuro, se fossi stato sul posto. Ma i miei affari mi costringono a viaggiare molto.

— E molto in fretta, eh? — Il comandante si portò una mano alla cintura e con gesto automatico sfiorò la fondina della sua grossa pistola a plasma. Guardò Miles da capo a piedi, come se vedesse un insetto, e si accigliò. — Non vale la pena di rischiare — disse dopo qualche secondo. — Tenente, lei e il caporale scortate questo piccolo sgorbio mutante al portello di tribordo, impacchettatelo in una sacca di sopravvivenza e buttatelo fuori. Poi ce ne torniamo a casa.

— No! — supplicò debolmente Miles mentre lo afferravano per un braccio. Sì! Trascinando i piedi li seguì alla porta, attento a non offrire resistenza per non mettere a repentaglio le sue fragili ossa. — Non avete il diritto di gettarmi fuori come se fossi una balla di merce… E quella Ariel, mio Dio… quella gente senza scrupoli…

— Oh, non temere, i mercenari di Aslund non ti perderanno — disse il comandante. — O magari ti scambieranno per una mina e ti faranno saltare, con un colpo di cannone al plasma. Chi può dirlo? — Con un sorrisetto si volse alla consolle, afferrò un microfono e in tono indifferente disse: — Nave Ariel? Qui Volo C6-WG. Purtroppo difficoltà tecniche ci impongono di cambiare il programma di volo e rientrare immediatamente a Stazione Vervain. Di conseguenza non abbiamo bisogno di un'ispezione pre-attracco. Vi lasceremo però un piccolo regalo di addio. Innocuo, sia chiaro. Cosa vorrete farne sono solo fatti vostri…

La porta di plancia si chiuse, e nel corridoio restò il silenzio. Miles fu fatto girare a destra verso un piccolo compartimento stagno. Cercò di divincolarsi ma il caporale lo tenne fermo, mentre l'altro uomo tirava fuori un involucro di plastica rossa, opaca.

La sacca di sopravvivenza era una sfera gonfiabile a uso rapido, generalmente fornita ai passeggeri delle navi di linea e utile sia durante un'eventuale depressurizzazione interna che per abbandonare la nave. Le sue possibilità tecniche non erano superiori a quelle di un salvagente di sughero. Il passeggero chiuso dentro di essa non aveva bisogno di alcuna conoscenza perché l'impianto — un minuscolo cilindro che forniva alcune ore di aria riciclata e il segnalatore a batteria da cui partiva un impulso radar — era automatico.

Inerte, a prova di idioti e di cani o gatti terrorizzati, poco raccomandabile per chi soffriva di claustrofobia, la sacca di sopravvivenza era così funzionale che salvava in effetti la vita di molta gente… purché i soccorsi arrivassero in tempo.

Miles mandò un gemito realistico quando fu costretto a strisciare nel contenitore odoroso di plastica e vi fu chiuso dentro. Uno strattone alla valvola e il pallone cominciò a gonfiarsi. Nello stesso istante in lui tornò un'immagine della tenda-bolla dell'isola Kyril, e il suo gemito si arricchì di una nota più autentica. A questo seguì una serie di urti e percosse, quando lo fecero rotolare senza complimenti nella camera stagna. Un sibilare d'aria, un clangore di flange, lo scossone della gravità che lo abbandonava e fu proiettato nel buio assoluto dello spazio vuoto.

Il sacco di sopravvivenza aveva un diametro di poco superiore al metro e venti. Piegato in due, Miles roteò con l'inerzia dell'impulso che lo aveva scaraventato fuori, conscio di roteare soltanto perché la forza centrifuga gli faceva salire lo stomaco in bocca. Annaspò attorno finché le sue mani tremanti artigliarono quello che gli sembrò un tubo a luce-fredda. Lo palpeggiò a caso e fu ricompensato dall'accendersi di una nauseante fluorescenza verdastra.

Il silenzio era profondo, disturbato solo dall'ansito spettrale del riciclatore d'aria. Be'… se dovevo proprio essere buttato fuori da un portello stagno, stavolta c'è una differenza che non sarò io a criticare. Nei venti minuti che seguirono ebbe modo d'immaginare tutti i possibili motivi per cui la Ariel poteva non ricevere il segnale di soccorso oppure decidere di non recuperarlo. Stava già pensando che avessero scelto di non aprire il fuoco su di lui per lasciarlo invece morire d'asfissia, quando il sacco di sopravvivenza fu agganciato da un raggio trattore con uno strattone che lo lasciò senza fiato.

Il troglodita alla manovra del raggio trattore era un criminale con dieci banane marce al posto delle dita, questo fu chiaro fin dal principio, ma dopo alcuni minuti di penosi sballottamenti il ritorno della gravità e alcuni rumori metallici gli dissero che si trovava all'interno di un compartimento stagno. Un portello si aprì, voci umane si avvicinarono. Poi il pallone cominciò a rotolare di nuovo. Con un grido di protesta lui si rannicchiò per proteggersi, finché quel movimento ebbe termine. Allora sedette, fece un lungo sospiro e cercò di sistemarsi l'uniforme.

Una mano palpeggiò la superficie esterna del pallone. — C'è qualcuno qui dentro?

— Fatemi uscire! — gridò Miles.

— Un momento…

Alcuni strattoni, lo scricchiolio della plastica dei sigilli mentre un utensile li spezzava, e poi il fruscio della cerniera. La sacca di sopravvivenza si afflosciò mentre l'aria ne usciva. Miles si fece strada fra le pieghe e vacillando si tirò in piedi, con tutta la goffaggine e l'inettitudine di un pulcino strisciato fuori dall'uovo.

Era in una piccola stiva per le merci. Tre militari in uniforme bianca e grigia lo circondavano, tenendogli puntati alla testa due storditori e un distruttore neuronico. Appoggiato a una cassa, un uomo snello coi gradi di capitano lo stava osservando.

La posa dell'ufficiale, i lunghi capelli castani e i lineamenti del volto, non lasciavano capire se fosse un uomo delicato ed efebico o una donna d'aspetto alquanto deciso. Quell'ambiguità a suo modo affascinante era in parte naturale, ma per il resto sapientemente coltivata. Bel Thorne era un ermafrodita betano, un discendente delle sperimentazioni genetico-culturali che s'erano concluse un secolo addietro senza molto successo. La sua espressione, dapprima blanda e scettica, si fece sbalordita quando poté vederlo in faccia.

Miles sogghignò ampiamente. — Salve, Pandora. Gli Dei ti hanno fatto un dono, ma a una condizione, e ora che l'hai violata tutti i mali del mondo sono liberi. Trovi soltanto me in fondo a quel dannato contenitore.