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D'impulso si chinò davanti all'apertura della tenda-bolla, cercò a tentoni la cerniera e la spalancò. Subito fu costretto a gettarsi a testa in avanti nella melma che fiottava nell'interno, scavandosi la strada come una talpa nel gelido marasma semiliquido. Uscì dal suo rifugio con una contorsione disperata e si spinse verso l'alto.

I polmoni gli stavano scoppiando e nelle pupille aveva soltanto una nebbia rossa quando la sua testa emerse finalmente in superficie. Aria! Annaspò nella fanghiglia, sputacchiando e sbattendo le palpebre nel vano tentativo di togliersela dal naso e dagli occhi. Tirò fuori una mano e poi l'altra, conscio che doveva trascinare su anche i piedi per galleggiare in posizione orizzontale. Ma il freddo intorpidiva perfino la sua capacità di pensare. La melma cercava di risucchiarlo in basso, stringendogli le gambe come l'abbraccio di una strega. Poi s'accorse che aveva le scarpe a contatto della tenda-bolla. Spinse verso il basso, le scarpe affondarono e la sua testa risalì di un centimetro. Questo fu il massimo che ottenne dal solo punto d'appoggio che aveva. Ora avrebbe dovuto nuotare. Sentì una radice sottile fra le dita e tirò; la radice cedette mollemente ma infine si tese e fece resistenza. Miles vi si aggrappò e continuò a tirare, con cautela per non spezzarla. Questo era già un progresso, e la sua gola si stava saziando d'aria respirabile. Appena ritrovò le forze cominciò ad agitare i piedi per strapparli alle braccia della strega.

Le sue gambe scivolarono fuori dai pantaloni, lasciandosi dietro anche le scarpe, e pian piano le sollevò in superficie. Per un poco fece il morto, con gli arti spalancati in croce per avere il massimo appoggio su quel fango traditore, gli occhi fissi in un cielo pieno di nuvole grigie. Indossava ancora, pesanti e inzuppate, la giacca dell'uniforme e la biancheria. Uno dei suoi calzini termici era andato, insieme alle scarpe e ai pantaloni.

Stava cominciando a grandinare.

Lo trovarono dodici ore più tardi, rannicchiato sopra il piccolo calorifero tubolare ormai quasi spento, in mezzo ai pannelli aperti della stazione meteorologica automatica. Aveva gli occhi cerchiati di nero, gli orecchi e i piedi bianchi come il gesso. Intorno al pollice e all'indice della sua mano destra erano attorcigliati due fili elettrici, messi a nudo, e le dita si aprivano e si chiudevano battendo con ipnotica regolarità il codice d'emergenza del Servizio. I fili erano quelli del barometro, il cui segnale poteva essere letto solo su un quadrante nell'ufficio meteorologico della base. Se e quando qualcuno avesse notato i difetti di lettura degli strumenti di quella particolare stazione. Se e quando qualcuno avesse capito che fra le scariche statiche c'era un segnale.

Le sue dita continuarono a battere quel ritmo anche dopo che l'ebbero tolto da lì, e crepitanti strati di ghiaccio si staccarono dalla giacca dell'uniforme quando raddrizzarono il suo corpo rigido e lo stesero su una barella. Gli chiesero spiegazioni, ma era troppo debole e non riuscirono a fargli uscire nulla di bocca, a parte il respiro rauco e sibilante. La risposta brillava soltanto nei suoi occhi.

CAPITOLO TERZO

Galleggiando in una vasca d'acqua calda nell'infermeria della Base, Miles considerò l'idea di crocifiggere i due sabotatori del reparto veicoli in diversi e immaginosi modi. A testa in giù, ad esempio. O appesi sotto una slitta antigravità, a bassa quota sul mare. Meglio, anzi, semisepolti in una palude congelata durante una bufera… ma quando il suo corpo si fu riscaldato e il medico l'ebbe tirato fuori per asciugarlo, visitarlo di nuovo e fargli servire un pasto energetico, la sua rabbia era ormai temperata dalla ragione.

Non era stato un tentativo di omicidio. E di conseguenza non si trattava di una faccenda che lui avesse il dovere di mettere nelle mani di Simon Illyan, temuto Capo della Sicurezza Imperiale e mano sinistra di suo padre. La truce scena dell'alto ufficiale che faceva trascinare via ammanettati i due bastardi era affascinante da contemplarsi, ma poco realistica, come sparare a dei topi con un cannone maser. Del resto, difficilmente il tribunale militare avrebbe trovato un luogo di reclusione più sgradevole di Campo Cessofreddo in cui spedirli.

Avevano voluto fargli affondare la motopulce nella palude, questo era certo, per metterlo nella situazione imbarazzante di dover chiedere alla Base l'intervento di automezzi pesanti. Imbarazzante, non letale. Non avrebbero potuto — nessuno avrebbe potuto — prevedere che lui si sarebbe prudenzialmente collegato al veicolo con una catena, cosa che s'era rivelata, in ultima analisi, la più pericolosa aggravante. Al massimo era materia per la Sicurezza del Servizio, già piuttosto severa, o per un normale provvedimento disciplinare.

Rimise le gambe sul letto, l'unico occupato della lunga corsia, e spinse di lato il tavolino col vassoio del cibo. L'infermiere rientrò ed esaminò con aria di disapprovazione quello che non aveva mangiato.

— Si sente meglio, signore?

— Meglio, sì — disse sgarbatamente lui.

— Vedo che, mmh, non ha finito il pasto prescritto.

— Mi danno sempre troppa roba. Non la mangio mai tutta.

— Sì, suppongo che lei sia meno… mmh, già. — L'infermiere batté qualche nota sul display della cartella clinica. Poi si applicò un oculare ed esaminò gli orecchi di Miles e le dita dei piedi, tastandolo con mani svelte e pratiche. — Be' — concluse, — non credo che dovremo toglierle via qualche pezzo. Le è andata bene.

— Trattate spesso casi di congelamento? — O l'unico idiota sono io? L'evidenza, al momento, sembrava avvalorare quell'ultima ipotesi.

— Oh, quando arriveranno le reclute qui dentro non ci sarà neanche lo spazio per girarsi. Congelamenti, polmoniti, contusioni, ossa rotte, slogature e strappi muscolari… d'inverno non passa giorno senza che dal percorso di guerra arrivino gavettoni malridotti, e istruttori malridotti, anche. Per non parlare degli incidenti che capitano durante l'addestramento con le armi. — L'infermiere batté qualche altra nota sulla cartella clinica e la trasmise all'archivio computerizzato. — Ho paura che dovrò elencarla come ricoverato, comunque, signore.

— Paura?

L'infermiere raddrizzò le spalle nell'atteggiamento inconscio di chi sta per dare notizie ufficiali, e assunse lo sguardo da non-è-colpa-mia-io-dico-solo-quello-che-mi-hanno-riferito. — Lei ha l'ordine di mettersi a rapporto dal comandante della Base, appena io la dichiaro dimesso, signore.

Miles considerò l'ipotesi di lamentare forti dolori dappertutto. No. Meglio togliersi subito quel pensiero. — Mi dica, sottocapo, è già successo che qualcuno abbia perduto una motopulce?

— Può scommetterci. Le reclute riescono a distruggerne cinque o sei ogni stagione, senza contare i guasti e le ammaccature. Ogni sera, quando i veicoli rientrano, le imprecazioni dei meccanici si possono sentire anche di lontano. Il comandante ha giurato che la prossima volta che qualcuno perderà una… ahem! — L'uomo tossicchiò.

Meraviglioso, pensò Miles. Davvero grande. S'era già immaginato la scena. Ora avrebbe potuto ingannare il tempo immaginandosela ancora meglio.

Miles fece una capatina nel suo alloggio per cambiarsi, presumendo che il pigiama dell'ospedale non sarebbe stato adatto al colloquio che lo aspettava. Questo lo costrinse a confrontarsi con un altro piccolo problema. La tuta nera da fatica avrebbe fatto pensare a un atteggiamento troppo rilassato, mentre l'alta uniforme di lucida stoffa verde era troppo formale per qualunque posto che non fosse il Quartier Generale Imperiale a Vorbarr Sultana. I pantaloni e le scarpe della sua divisa normale erano in fondo a una palude. Nella sacca aveva portato con sé solo tre cambi d'abito, uno per ogni stile, e il baule con gli altri indumenti che doveva seguirlo era ancora in transito, al deposito bagagli di qualche aeroporto.